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 2017  dicembre 07 Giovedì calendario

Il lato poetico di Lombroso


Filippo Turati, il padre del socialismo italiano, comincia a scrivere a Cesare Lombroso per raccontargli di quel terribile mal di testa che lo fa sentire «intronato, intontito, sonnolento». O anche di quando, lui che non frequentava i bordelli («i comuni abbeveratoi»), aveva finalmente conosciuto una ragazza «di facile abbracciabilità». E non smette mai di ringraziarlo per averlo preso in cura. Anna Kuliscioff, la rivoluzionaria, scrive invece alla moglie del «professore» per ringraziarla «delle ore di geniale compagnia» e per confessarle che l’atmosfera colta nella sua casa le sta facendo cambiare idea sulla famiglia: la felicità, scrive, «forse non è un semplice sogno da poeta, o una frase retorica dei buoni borghesi, ma un fatto, una realtà». Ma questo è il Lombroso adulto, che riceve dalle 10 alle 20 lettere al giorno.
C’è poi quello giovane, ancora lontano dal diventare il fondatore dell’antropologia criminale, che scrive a sua volta perché ha molti dubbi. A 19 anni, mentre legge l’epistolario di Ugo Foscolo per assaporarne «i famosi sfoghi e i nobili scopi», vuole sapere se fa bene ad «annichilare ogni scintilla di fantasia» per non «barcollare» nella strada che ha già scelto, quella del «coltello anatomico» e della «fredda e severa analisi della storia». Scrive allora al suo amico Ettore Righi, etnografo e poeta, e la lettera è conservata presso la biblioteca civica di Verona. Gli confessa che ha una gran voglia «di abbandonare la vita del pensatore per quella dell’uomo di cuore». E che vuole dedicarsi ai versi e alle rime per provare «quelle fervide e negate passioni, quei sussulti vigorosi e pronunziati, quella gioja e quei grandi dolori che valgono ben la fisica e intermittente fiammella di qualche acuta osservazione, o di qualche nuova scoperta».
Positivismo o romanticismo? Il dilemma vero è questo. La misurazione di tutto, anche delle emozioni o l’emozione come misura assoluta dell’uomo? Il giovane Lombroso è disgrafico, in molti gli scrivono di essersi persi nei suoi geroglifici, ma il difetto non gli blocca il racconto. Quasi criptandolo, anzi, addirittura lo potenzia nell’intimo. Arrivano così le ammissioni più frivole e impudiche. Caro Righi, «ho imparato a sgambettare, volea dire a ballare (ma il termine per ora non è giusto)... e sia pur anche a fare all’amore». 
Poi, però, Lombroso impugna i suoi attrezzi – quelli chirurgici, ma anche quelli meno invasivi come gli album in cui ha raccolto di tutto, dai disegni dei tatuaggi alle foto segnaletiche dei delinquenti – e diventa il medico, lo psichiatra, l’antropologo, il criminologo, il collezionista e l’intellettuale più noto, discusso e contraddittorio del suo tempo: ebreo, pone le basi del razzismo scientifico; razionalista, si occupa anche di occulto; scienziato, inanella molte cantonate. Fanno discutere i crani che sezionava convinto di poter trovare i segni distintivi del tipo criminale; o la contrarietà al diffondersi della bicicletta che, diceva, avrebbe velocizzato la devianza. Ma anche i suoi studi sulla genialità e sull’ art brut, quella dei marginali; o la militanza socialista e l’adesione al pensiero meridionalista.
Di lui molto già si sa. Ma molto sta emergendo anche dalla sua fluviale corrispondenza. Ci sta lavorando, Silvano Montaldo, direttore del Museo Lombroso di Torino, con l’obiettivo di mettere «in rete» entro giugno, più di 2.500 lettere: sia quelle del fondo archivistico del museo, comprensivo delle donazioni dei discendenti, catalogate da Sara Micheletta e Cristina Cilli, sia quelle rintracciate, in Italia e all’estero, da Emanuele D’Antonio, dell’Università di Torino. «Quel che resta di questo immenso epistolario lombrosiano – dice Montaldo – consente di aprire piste di ricerca del tutto nuove, perché di nessun autore tanto noto conosciamo così poco della sua vita e delle sue relazioni, se non per quello che le figlie nelle biografie del padre ci hanno voluto trasmettere. Stiamo comprendendo ispirazione, influenze, motivazioni e ricadute che stanno a monte e a valle dei suoi celebri (e famigerati) libri». Il filo conduttore della poesia, dove il privato sfida il pubblico, sembra essere uno dei più solidi. È la poesia che trattiene all’inizio Lombroso dal diventare quello che è diventato; è la poesia che lo avvicina a Turati, di cui vuole acquistare i versi appena pubblicati; è Turati che gli fa conoscere Anna Kuliscioff. Ma Lombroso è incontenibile. Corrispondeva con mezzo mondo. Con Herzl e Nordau, che cercano di impegnarlo sul fronte sionista ottenendone solo un pubblico messaggio. Con Durkheim e con Sorel. Con Mosca e Pareto. Con Verga e con Capuana. Con Ernesto Teodoro Moneta e con Giustino Fortunato.
Questo lo rende in qualche modo «specchio» di un’epoca: anche in virtù della considerazione in cui era tenuto. Tutti hanno qualcosa da chiedergli, da confessargli, di cui essergli riconoscenti. La lettera che segue è appunto di Giustino Fortunato, l’altro grande padre, quello del meridionalismo, ed è datata 13 maggio 1909: «Mio amatissimo venerato amico, perché mi date del Voi? A me spetta il tu, a me che ogni giorno fo voti per una vita che è di esempio, di ammaestramento, di supremo conforto per tutti i buoni!».