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 2017  dicembre 07 Giovedì calendario

Il Papa e la frase sbagliata tradotta dal Padre Nostro. «Dio non è un tentatore»


CITTÀ DEL VATICANO «Indurre» non va bene, «abbandonarci» chissà. L’intervista di Francesco al teologo don Marco Pozza, trasmessa a puntate da Tv2000 e pubblicata in volume con il titolo «Quando pregate dite Padre nostro» (Rizzoli- Lev), riapre l’annosa questione della preghiera più importante dei cristiani, le parole trasmesse da Gesù agli apostoli che gli chiedevano: «Signore, insegnaci a pregare».
Questione delicatissima, perché tutti i fedeli hanno imparato fin da piccoli a dire «e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male», e pure a Francesco lo insegnò così la nonna, però c’è poco da fare: «Questa è una traduzione non buona», sillaba il Papa. Il problema è come rendere quella voce verbale che si legge nel testo originale greco del Vangelo di Matteo (6,13), riferimento della tradizione liturgica: eisenénkes, dal verbo eisféro, che per secoli è stato tradotto con l’«inducere» latino della Vulgata di San Girolamo, da cui l’«indurre» italiano. 
Francesco spiega: «Sono io a cadere, non è Lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto. Un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito. Chi ci induce in tentazione è Satana, è questo il mestiere di Satana». Così, «il senso della nostra preghiera è: “Quando Satana mi induce in tentazione tu, per favore, dammi la mano, dammi la tua mano”. È come quel dipinto in cui Gesù tende la mano a Pietro che lo implora: “Signore, salvami, sto affogando, dammi la mano!”».
Lo stesso Papa, del resto, ricorda che il problema è già stato affrontato: «Se apriamo il Vangelo nell’ultima edizione a cura della Cei, leggiamo: “non abbandonarci alla tentazione”. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che significa: “Non lasciarci cadere nella tentazione”».
La versione francese, «ne nous laisse pas entrer en tentation», è infine stata recitata per la prima volta nelle chiese domenica scorsa. In Italia la situazione è più complicata. La nuova traduzione della Cei è stata pubblicata nel 2008, sotto il pontificato di Benedetto XVI, a compimento di un lavoro ventennale sulle Sacre Scritture. E si scelse di tradurre «non abbandonarci». Come spiegava all’ Osservatore Romano il biblista Giuseppe Betori, allora Segretario generale della Cei e oggi cardinale di Firenze, «“non abbandonarci” ha una doppia valenza, “non lasciare che noi entriamo dentro la tentazione” ma anche “non lasciarci soli quando siamo dentro la tentazione”».
Il cambiamento in italiano non è però (ancora) stato recepito nella liturgia, resta valido nelle Chiese il Messale romano dell’83. Alla Cei spiegano come in realtà esistano comunità «che pregano nella nuova versione», non c’è bisogno di particolari permessi, ma «è un problema essenzialmente culturale» e la gran parte dei fedeli è abituata a «indurre». È anche vero, però, che occorrerebbe un atto formale e ci sono comunque dubbi autorevoli anche sulla nuova traduzione. 
Un grande teologo come l’arcivescovo Bruno Forte, assai stimato da Benedetto XVI e scelto da Francesco come Segretario generale dell’ultimo Sinodo, inviò a suo tempo in Vaticano, alla Congregazione per il Culto divino, una serie di osservazioni: «A mio avviso il “non abbandonarci” è una versione infelice, perché Dio non ci abbandona mai. Mi convince ancor meno di indurci, se non altro di uso comune. La forma verbale è causativa. La versione in spagnolo dice opportunamente: no nos dejes caer en la tentación, non lasciarci cadere nella tentazione, quella francese va nello stesso senso». 
Di qui la sua proposta : «La traduzione più pertinente potrebbe essere “fa’ che non cadiamo in tentazione”. Più letterale sarebbe la versione “fa’ che non entriamo in tentazione”, che esprimerebbe l’invocazione a non essere messi alla prova, in quanto coscienti della nostra fragilità».