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 2017  dicembre 02 Sabato calendario

Intervista ad Andrea Vitali: Sono un inguaribile provinciale che ama pranzare con i suoi lettori

C’era una volta un medico che giorno dopo giorno nel suo ambulatorio identificava questo e quel malanno, compilava ricette e ascoltava le storie dei suoi pazienti. Finché decise di «prescrivere» non solo il farmaco per l’influenza o per la gotta, ma i sapidi canovacci di vita che gli venivano generosamente messi sotto gli occhi o sussurrati all’orecchio, medicando così, con l’elisir del sorriso, il male di vivere di migliaia e migliaia di lettori.
Correva il 1989 quando Andrea Vitali, classe 1956, casa e studio a Bellano sul lago di Como, varò il primo libro, Il procuratore. Da allora collezionando bestseller, fino all’ultima prova (in ordine di tempo, beninteso). Bello, elegante e con la fede al dito (Garzanti).
Come avvenne l’esordio?
«Grazie a Raffaele Crovi, allievo di Elio Vittorini, fra i maggiori editor del nostro secondo Novecento. Era al Campiello, finalista, quando annunciò il varo di una casa editrice, Camunia. Gli mandai i miei racconti. In breve mi rispose. Lusingandomi (buone le trame) e sferzandomi (la scrittura non va)».
Perché non andava, secondo Raffaele Crovi?
«La riteneva un po’ datata. Gli apparivo, chissà, come un eco di Fogazzaro, Piccolo mondo antico e dintorni. Mi diede un consiglio: “Legga autori contemporanei, metta tra parentesi i classici”».
E lei dove sciacquò manzonianamente i suoi panni?
«Già, Manzoni, Don Lisander, che nei Promessi sposi sosta a Bellano. Evocando i lanzichenecchi...».
E dunque?
«I panni li ho sciacquati con Dürrenmatt, La promessa, Calvino, Soldati, Piero Chiara, va da sé, Giovanni Arpino...».
Medico e scrittore.
«All’inizio la letteratura non mi assicurava guadagni sufficienti per sbarcare il lunario».
Che infine arrivarono.
«Ero il medico condotto di Bellano. Ho ceduto il testimone. Ma non ho accantonato Ippocrate. Opero, come volontario, in una comunità psichiatrica della Val Seriana, nel Bergamasco».
Bellano, il vizio di Bellano...
«Non lascerei mai Bellano. Nessuna tentazione cittadina mi sfiora. L’abitudine? Le salvifiche abitudini. La carissima aria del villaggio. Qui il tempo scorre, non corre, non deraglia. Leggere, rileggere, scrivere richiedono di indossare una divisa latina: festina lente, affrettati lentamente».
Tra le sue specialità i nomi (e i cognomi), oltremodo bizzarri. Da – attingiamo nel registro diBello, elegante e con la fede al dito- Sciatinna Locitri a Olbia Cassinetti. Dove li scova?
«Nel calendario di frate Indovino come nelle anagrafi cimiteriali, nei camposanti di lago».
Due nomi (e cognomi) in particolare?
«Avevo in pagina una donna sempre gravida. Mi venne da battezzarla Estenuata. Non dimenticando la guardia giurata Firmato Bicicli, emulo, tra gli emuli, di Firmato Diaz».
Traduzioni?
«In Germania, in Francia, in Spagna, in Giappone».
In televisione la si vede poco. Ci si aspetterebbe di trovarla nel salotto di Fabio Fazio.
«Fui ospite di Che tempo che fa una sola volta. Sarà che non sono a misura di salotti, sarà che sono un – fortunatamente orgogliosamente – inguaribile provinciale».
Il rapporto con i lettori?
«De visu più che postali. Gruppi di lettori. Ci si accorda. Li accolgo alla stazione. Trascorriamo insieme un’ora, un’ora e mezzo, li conduco nei luoghi che di pagina in pagina li hanno affascinati, pranziamo e ci diciamo arrivederci».
C’è il Cotonificio, chiuso non da oggi. E l’Orrido.
«Che esercita un sicuro richiamo. Così primitivo, così infernale, acqua, rocce, sinistri suoni. Un flauto che seduce, eccome, gli aspiranti suicidi».
Lettori comuni e lettori famosi.
«Come Andrea Camilleri. Ci incontrammo a Roma. Io fresco autore di Olive comprese. Lui alle prese con Il nipote del Negus. Per una buona mezz’ora non riuscii a parlare o quasi. Mi congedai chiamandolo Maestro. “Maestro un c...” mi folgorò con la sua voce cavernosa, rauca di centomila sigarette».
Dai suoi libri non si è mai pensato di trarre un film o una fiction?
«Sì. Bussò un produttore, salvo, dopo sei mesi, ritirarsi. Tanto ci mise per capire che non commetto crimini. Oggi vanno di moda il giallo e il noir, no? A Bellano siamo in tremila, se scegliessi la via del delitto, ancorché su carta, condannerei all’estinzione il mio presepe».
Quando scrive?
«Preferibilmente la mattina. Appena sveglio. Uno sguardo al televideo. Un caffè. Una sigaretta. Affacciandomi alla finestra vistalago, indovinando o intravedendo anime e vicende che aspettano il loro autore. Quindi riempiendo i quaderni che mi procura mia moglie. Scrivendo a mano. La via artigianale alla letteratura».
C’è un libro più volte annunciato, eppure ostinatamente nel cassetto.
«Sì, Il cappello di Alida Valli. Vissi nella villa (una dependance, beninteso) dove l’attrice soggiornò. Era allora fidanzata con il nipote del proprietario, un pilota che cadrà in combattimento. Infinita Liala».
Quando lo leggeremo?
«Mah... A difettarmi è il finale. Quando comincio un romanzo già ne devo conoscere l’epilogo. Altrimenti mi areno».
Il prossimo romanzo?
«Uscirà in febbraio: Nome d’arte Doris Brilli. Me lo ha ispirato un’amica di famiglia. Nel cimiterino del suo paesello una lapide avverte: “Si amarono in vita, si ritrovarono dopo la morte”. Due donne. Un amore diverso, difficile. Ho cercato di metterne tra parentesi le amarezze, le asperità, le sinuosità, facendone risaltare le ore felici, i passi lievi, le umanissime gioie».
Una storia Anni Venti-Trenta. Soprattutto la sua epoca. Perché?
«Venti-Trenta e anni Sessanta di Bello, elegante e con la fede al dito, per esempio. Età felici perché vive, vivaci, ruotanti intorno a una sicura identità: usi, costumi, lingua, simboli, codici. Non avari di ombre, ma con il respiro di una forse indefinibile innocenza. Lasciatemi immaginare, lasciatemi sognare...».