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 2017  dicembre 02 Sabato calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - TRUMP DI NUOVO NEI GUAIREPUBBLICA.ITNEW YORK - L’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump, Michael Flynn, si è dichiarato colpevole di aver mentito all’Fbi, dopo essere stato formalmente accusato di aver reso dichiarazioni false sui suoi contatti con la Russia

APPUNTI PER GAZZETTA - TRUMP DI NUOVO NEI GUAI

REPUBBLICA.IT
NEW YORK - L’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump, Michael Flynn, si è dichiarato colpevole di aver mentito all’Fbi, dopo essere stato formalmente accusato di aver reso dichiarazioni false sui suoi contatti con la Russia. Presentatosi in tribunale per un’udienza di patteggiamento, Flynn ha ammesso di non aver detto la verità sul suo incontro con l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Sergey Kislyak. Secondo Abc News l’ex consigliere ha promesso di collaborare e sarebbe pronto a testimoniare contro il presidente. Il procuratore Robert Mueller ha detto che a chiedere a Flynn di incontrare i russi è stato un "funzionario importante" della squadra di Trump. Diversi mezzi di informazione, tra cui Washington Post, Cnn e Nbc, basandosi sulle carte hanno fatto il nome di Jared Kushner, il genero e consigliere del capo dell’amministrazione Usa. E alcuni anche quello dell’ex consigliere K.T. McFarland. La Casa Bianca intanto prende le distanze.

"Ho sbagliato. La mia dichiarazione di colpevolezza e la volontà di cooperare con il procuratore speciale riflettono la decisione che ho preso nel miglior interesse della mia famiglia e del mio Paese. Accetto la piena responsabilità delle mie azioni", ha detto l’ex consigliere. 

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È il "pesce più grosso" che sia finito nella rete dell’indagine sul Russiagate, almeno finora. L’uomo che fu il primo consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, con accesso a tutti i segreti dell’intelligence americana, è quindi formalmente incriminato. Il generale Flynn ha ricevuto notifica dell’incriminazione dallo Special Counsel, il superprocuratore indipendente Mueller che porta avanti l’indagine su incarico del Dipartimento di Giustizia.

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· L’ACCUSA
L’accusa è di aver mentito all’Fbi nel corso di una deposizione sotto giuramento, riguardo al contenuto di un incontro che Flynn ebbe con l’ambasciatore russo. Il generale e  l’ambasciatore Kislyak si erano visti il 29 dicembre e Flynn aveva nascosto questo incontro sia all’Fbi che al vicepresidente Usa, Mike Pence. Dopo la pubblicazione di questa notizia il presidente Donald Trump lo aveva costretto a dimettersi: Flynn ha svolto il suo lavoro nell’amministrazione Usa per soli 24 giorni.

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Importante quanto l’incriminazione è il fatto che il generale abbia accettato di riconoscere la propria colpevolezza. Non a caso già qualche giorno fa si era saputo che la squadra legale dei difensori di Flynn aveva cessato ogni comunicazione con la Casa Bianca: questa è una pre-condizione per collaborare con l’accusa. 

Per il Tribunale - si legge nel documento depositato oggi - l’ex congliere ha "ostacolato" l’indagine.

· IL COMMENTO DELLA CASA BIANCA
"Le ammissioni e le incriminazioni relative al signor Flynn riguardano solo lui, e non altri", commenta a caldo Ty Cobb, consigliere speciale della Casa Bianca. "Le sue false dichiarazioni - continua - riflettono le menzogne che disse a funzionari della Casa Bianca e che portarono alle sue dimissioni del febbraio scorso". Di fatto il cerchio si sta stringendo e l’indagine arriva sempre più vicina a Trump.

MA LA BASE È CON DONALD Dal nostro corrispondente NEW YORK L’incriminazione di Michael Flynn, le voci che inguaiano il genero presidenziale Jared Kushner, sono riuscite a turbare perfino Wall Street spezzando per un giorno la sua corsa, che da mesi travolgeva i record. Ma questo venerdì primo dicembre resterà come una giornata bifronte nella percezione degli americani. Mentre l’inchiesta sul Russiagate stringeva il cerchio attorno a Donald Trump, nelle stesse ore il presidente incassava un successo politico prezioso. Al Senato i repubblicani si sono ricompattati per far procedere verso il traguardo la riforma fiscale. Per la prima volta un provvedimento legislativo con l’impronta di questo presidente veleggia verso l’approvazione. Per un leader che sembrava inconcludente questa manovra fiscale è una novità importante. Lì dentro c’è un poderoso taglio alle tasse sulle imprese, che secondo questa Amministrazione consentirà un boom negli investimenti, nuovi aumenti nell’occupazione e perfino quegli aumenti salariali che da decenni si fanno desiderare. Sul ceto medio l’impatto è variegato, i più ricchi incassano l’abolizione dell’imposta di successione, altri sgravi beneficiano i piccoli imprenditori (ma anche lo stesso Trump in quanto proprietario di una miriade di aziende familiari non quotate). Tra i danneggiati ci sono i contribuenti degli Stati governati dalla sinistra, che perdono la deducibilità delle imposte locali. I conti finali ognuno se li farà in tasca però il trofeo simbolico è innegabile. Torna in auge la Reaganomics: tassiamo meno le imprese e tutti staremo meglio. Il fatto che i profitti siano da anni ai massimi storici, senza che la ricchezza capitalista venga condivisa coi dipendenti, è un dettaglio che non viene preso in considerazione. La base repubblicana – compresi tanti operai metalmeccanici e bianchi poveri che votarono Trump – ne fa un articolo di fede: meno tasse, meno Stato, ecco le condizioni per “rifare grande l’America”. Questo spiega perché i dissensi tra i senatori repubblicani si sono ricuciti. Il Dow Jones alle stelle aiuta, l’accelerazione nella crescita (+3,3%) indica che gli investitori scommettono su questa America. La ritrovata compattezza a destra deve suggerire cautela sugli scenari del Russiagate. Lo scandalo s’ingrossa ma prima di parlare d’impeachment bisogna ricordarne la pre-condizione: i rapporti di forze al Congresso, dove i numeri attuali favoriscono Trump. – F. Ramp.

L’ultima vendetta del generale furioso VITTORIO ZUCCONI, WASHINGTON Icolleghi con le stelle sulle spalle lo chiamavano “ The Angry General”, Michael Flynn il generale furioso, perennemente in collera contro il governo, il Parlamento, la Casa Bianca di Obama che gli impedivano di condurre la sua crociata contro l’Islam, l’odiata Hillary Clinton, il mondo, una rabbia che sembrava avere trovato rifugio e anima gemella soltanto in Donald Trump. Quel presidente che si fidò di lui e che ora il generale potrebbe demolire dall’interno, scoperchiando il verminaio dei rapporti segreti fra il Team Trump e gli emissari del Cremlino. La vita e la storia del generale a tre stelle Michael Flynn, fermato nella sua carriera a un passo dalla quarta e ultima stella, sarebbe una classica storia americana di successo realizzata attraverso quella gigantesca macchina umana che è l’Esercito. Flynn era nato in una famiglia Democratica del Rhode Island, figlio di una agente immobiliare e di un piccolo businessman che aveva combattuto nella Seconda Guerra Mondiale. Si era laureato nell’università statale, seguendo i corsi militari per avere la retta pagata e diventare sottufficiale della Riserva, dunque lontano dalle élite sussiegose degli ufficiali sfornati dall’Accademia Militare di West Point. Ma Flynn non si era mai messo in competizione con i generalissimi della sua generazione oggi ultra sessantenne, con l’aristocrazia alla Colin Powell che lo considera un “jerk”, un fesso. Era incapace di camminare abilmente fra le mine della politica e i proiettili del nemici e aveva scelto subito scelto la strada dell’“Intelligence”, dello spionaggio, dell’analisi, con un accanimento e un’intelligenza maniacale che il suo profilo tagliente da rapace tradisce. Era intollerante con pari grado, subordinati, superiori che osavano non condividere le sue analisi, via via più arrogante inarrestabile in una carriera che lo aveva portato dalle luride sale di interrogatori per islamisti di al Qaeda e Isis alla direzione della Dia, l’agenzia di spionaggio del Pentagono. Fino a quando il Presidente Obama, che lo aveva elevato a quell’incarico, lo depose, quando i colleghi rivelarono che la Dia era diventata un caos e Flynn la governava come un despota furioso per l’ipocrisia di una Casa Bianca che sottovalutava la minaccia del radicalismo islamico. Una collera carsica, sotterranea, ribollente che esplose alla superficie con l’avvento di Trump. Flynn, sconosciuto al grande pubblico, divenne una celebrità alla Convention Repubblicana di Cleveland, la scorsa estate, quando dal podio gridava i cori di “Lock’er up”, mettetela in galera, contro Hillary. Invano Barack Obama scongiurò Trump di non sceglierlo per il più delicato degli incarichi, quello di Consigliere per la Sicurezza Nazionale, dal quale passano tutti i segreti e le decisoni più importanti, quelle nucleari comprese. Trump se ne era invaghito. Aveva scelto di ignorare le voci su Flynn che lo indicavano al soldo di potentati stranieri, come il turco Erdogan, che lo avevano portato, nel 2015, a sedere al fianco di Putin a Mosca, per festaggiare — a pagamento — Russia Today, uno degli strumenti della propaganda e delle fakenews russe. Era meglio per Trump ignorare la tendenza di Flynn ad avvalorare le più sgangherate teorie complottiste, come l’insinuazione che Hillary fosse alla guida di un traffico internazionale di prostituzione infantile. Sapere che un generale addetto all’Intelligence crede al cospirazionismo dei dementi da social network avrebbe dovuto suonare sirene d’allarme, ma Trump lo scelse comunque. E dopo appena 24 giorni dovette licenziarlo, con il pretesto che Flynn aveva mentito al vice presidente Pence sui suoi continui, ripetuti contatti — sempre nascosti — coi russi e con l’ambasciatore Kislyak. Flynn era troppo arrogante, troppo affamato di vendetta per non voler condurre una politica estera in proprio e dimostrare che i suoi nemici, i Clinton, gli Obama, i generaloni, lo avevano sottovalutato. Se avesse fatto tutto questo con l’autorizzazione e la consapevolezza di Donald Trump è la domanda alla quale è appeso il futuro del possibile impeachment del Presidente e alla quale punta l’Inquistore Muller concedendogli, anche per proteggere il figlio, il patteggiamento. Flynn sa. Trump rabbrividisce. La rabbia, come sempre, finisce per divorare se stessa.