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 2017  novembre 30 Giovedì calendario

La scienza uccide il mitico Yeti

Ogni progresso scientifico comporta necessariamente delle perdite. Ma lo studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista Proceedings of the Royal Society B da un gruppo internazionale di ricerca coordinato dalla biologa Charlotte Lindqvist dell’Università di Buffalo, negli Stati Uniti, ha fatto una vittima illustre, che da secoli occupava uno spazio nel nostro immaginario collettivo. 
Il test del dna applicato a nove reperti (ossa, denti, pelle ed escrementi) ritrovati tra Nepal e Tibet e tradizionalmente attribuiti allo Yeti, ha provato che questi appartengono in realtà a un cane, in un caso, e per il resto a esemplari di orsi di tre diverse specie a rischio di estinzione: orso tibetano, orso bruno tibetano e orso bruno himalayano. Per scienziati e alpinisti la scoperta non rappresenta una sorpresa. «L’ho sempre detto e scritto che lo yeti è in realtà un orso», ha commentato la notizia Reinhold Messner (che nel 1986 aveva annunciato un avvistamento della mitica creatura), aggiungendo però che «la leggenda dello Yeti va oltre la scienza, perché è l’immagine che la gente del posto vuole avere di questo animale. Si tratta del corrispettivo zoologico dell’immaginazione popolare». La storia dello Yeti è costellata di errori d’interpretazione, primo fra tutti quello che gli ha attribuito il nome di «abominevole uomo delle nevi», termine derivato da una traduzione giornalistica sbagliata dell’espressione nepalese Metoh Kangmi (uomo-orso delle nevi). La parola Yeti deriva invece, più prosaicamente, da y eh-teh : «quella cosa là», espressione con cui gli sherpa indicavano la mitica creatura, i cui primi avvistamenti risalgono a fine Ottocento e che avrebbe parentele sparse in tutto il mondo: dall’Alma cinese al Chuchuna russo, fino al più famoso Sasquatch o Bigfoot delle Montagne Rocciose americane. 
Le prime impronte attribuite allo Yeti vennero trovate nel 1889 dal maggiore inglese L.A. Waddell a più di 5.000 metri di quota, e notizie della creatura risalivano già a qualche decennio prima, ma la sua definitiva «scoperta» da parte dell’Occidente, così come l’errata attribuzione del termine «abominevole», datano al 1921, con l’avvistamento da parte di un altro ufficiale britannico, il tenente colonnello C.K. Howard-Bury, che aprì una serie di altri avvistamenti che consacrarono lo Yeti alla fama mondiale. Nei quasi cento anni passati da allora non si contano gli articoli pubblicati sullo Yeti. A mano a mano che la creatura acquistava notorietà venivano scoperti, in villaggi e monasteri nepalesi, presunti suoi reperti, fra cui quelli sottoposti oggi alla prova del dna. 
Reperti e avvistamenti consolidavano il mito dello Yeti, protagonista nel corso degli anni di una dozzina tra film e cartoni animati e di numerose avventure a fumetti, tra cui una di Martin Mystére in cui si ipotizza un’origine extraterrestre della creatura. Il più alto risultato artistico rimane comunque il romanzo del 2013 «The Abominable» di Dan Simmons (pubblicato in Italia da Fabbri col titolo «Everest – Alba di sangue)», in cui l’ombra sinistra dello Yeti minaccia una scalata al Monte Everest nel 1924. 
Insomma, ha ragione Messner. Lo Yeti può essere stato cancellato dalle pendici dell’Himalaya ma si è conquistato uno spazio vitale nella nostra immaginazione, occupando una nicchia ecologica precisa: quella della creatura libera e selvaggia che mantiene il mistero di quelle cime vertiginose che altrimenti diventerebbero solo l’ennesima località turistica, anche se ancora per pochi, del nostro pianeta. Lo Yeti è morto, lunga vita allo Yeti.