Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  novembre 14 Martedì calendario

Puigdemont ora vuole trattare. «L’indipendenza non è la sola via»

BRUXELLES Il giorno concordato, alle 15.30 nel parcheggio dell’Arboretum a Tervuren, uno dei sobborghi della capitale belga, non c’è un’anima. Sotto una pioggerella appena interrotta dall’unico e ultimo raggio di sole della giornata, ci sembra, giornalista e fotografo, di essere in un romanzo di John Le Carré quando compaiono due automobili che vanno a parcheggiarsi all’altra estremità dello spiazzo. Due uomini scendono da una berlina, mentre la sagoma familiare, circondata da due uomini e dal giovane assistente con cui avevamo preso un caffè il giorno prima, esce dal minivan.
Così, scortati da quattro guardie del corpo a distanza ragionevole, io e Carles Puigdemont cominciamo una passeggiata sotto il cielo autunnale che ci impegnerà per più di un’ora in un’animata conversazione. Ripartiamo dal 6 e 7 settembre scorsi, quando la sua maggioranza indipendentista ha approvato la legge per l’organizzazione del referendum e la transizione verso l’indipendenza. Un voto boicottato dall’opposizione: il testo era stato messo all’ordine del giorno all’ultimo minuto, era stato lasciato poco tempo per il dibattito, non si era tenuto conto del parere negativo del servizio giuridico del Parlament, l’assemblea legislativa catalana… Gli indipendentisti si riempiono sempre la bocca con la parola «democrazia», ma tutto questo è stato democratico?
«Capisco i suoi dubbi. Ma bisogna ricordare che le leggi, in tutti i Parlamenti del mondo, sono approvate dalla maggioranza assoluta dei deputati…». Lo interrompo: la democrazia non è soltanto la legge della maggioranza, è più di questo. «Appunto», risponde lui. «In Spagna è impossibile, per una minoranza come la Catalogna, avere il diritto di cambiare il quadro generale. Per anni abbiamo chiesto di poter discutere nel Parlamento catalano le leggi sul referendum, su una transizione nazionale… Ogni volta che volevamo creare una commissione su questi temi, i gruppi che oggi ci accusano di non essere stati democratici si rivolgevano alla Corte costituzionale per impedire questi dibattiti».
Molti osservatori hanno sottolineato un errore strategico degli indipendentisti, che sembrano aver creduto fino all’ultimo che l’indipendenza, una volta votata, sarebbe stata riconosciuta da qualcuno all’estero. Carles Puigdemont spazza via questa critica: «No, ho sempre detto che nessun Paese ci avrebbe riconosciuto, che avremmo dovuto lavorare su questo. Ma per crearci una possibilità in tal senso, dovevamo prima di tutto riuscire a organizzare pacificamente un referendum, e ci siamo riusciti: un gran numero di catalani ha partecipato in condizioni estremamente difficili. Certo, avremmo voluto poter tenere questa votazione in condizioni di normalità, ma viste le condizioni che ci ha imposto lo Stato, è stata una vittoria democratica».
Si fa fatica, però, a immaginare ora una possibile via di compromesso, considerando che gli indipendentisti vogliono solo l’indipendenza… «Non è vero!», si accalora il presidente in esilio. «Io sono disposto e sono sempre stato disposto ad accettare la realtà di un’altra relazione con la Spagna!». Un’altra soluzione che non sia l’indipendenza è dunque possibile? «È sempre possibile! Io che sono stato indipendentista tutta la vita, ho lavorato trent’anni per ottenere un altro ancoraggio della Catalogna nella Spagna. Abbiamo lavorato molto per questo obbiettivo, ma l’arrivo al potere di Aznar (ex leader del partito popolare e primo ministro dal 1996 al 2004, mentore di Mariano Rajoy, ndr) ha fermato questo percorso». Confesso a Puigdemont il mio stupore: allora non dite indipendenza o morte? «Assolutamente! Sono sempre favorevole a un accordo. Ma tutto questo nasce dall’invalidazione, nel 2010, dello statuto di autonomia che era stato approvato dal Parlamento catalano e quello spagnolo. Sa quanti deputati indipendentisti c’erano in quel momento nel Parlamento catalano? Solo 14 su 135! Ora sono 72. Il responsabile dell’avanzata indipendentista è soprattutto il Partito popolare».
In tutti i suoi interventi pubblici dopo la fuga dalla Spagna, il presidente destituito ribadisce con enfasi la domanda che rivolge a Madrid: «Riconoscerete il risultato delle elezioni del 21 dicembre?». Il ragionamento è facilmente comprensibile: se gli indipendentisti conquistano di nuovo la maggioranza e il potere, il governo Rajoy destituirà di nuovo tutti o cambierà finalmente atteggiamento? Secondo Carles Puigdemont, c’è solo una strada possibile: «Non bisogna mandare il procuratore generale a fare politica, bisogna tornare a sedersi al tavolo negoziale. Ma una nuova vittoria mostrerà che questa storia non è una cosa di quattro esaltati».
Domando al presidente destituito quale senso può avere, in un’Europa che si integra, la scissione di un nuovo Stato. «Se si cerca di comprendere quello che succede in Catalogna attraverso la lente dei nazionalismi del XX secolo, non ci si riesce. Noi non rivendichiamo la creazione di uno Stato identitario, come quelli che esistono in Europa attualmente. Noi vogliamo costruire uno Stato moderno, dove la diversità delle lingue è possibile. Se fosse stato possibile farlo con lo Stato spagnolo, non ci sarebbe stata nessuna rivendicazione di uno Stato catalano».