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 2017  novembre 14 Martedì calendario

«Siamo tutti degli avatar I miei incontri con Fellini in un centro anti calvizie». Intervista a Roberto D’Agostino

Da casa D’Agostino il Cupolone e Castel Sant’Angelo pare di poterli toccare. «Purtroppo Roma e l’Italia non sono adatti ai tempi. Questa è l’età del soft-power, della realtà virtuale. Cupertino prende il nome dal santo delle levitazioni. Noi invece abbiamo l’hardware: pietra, marmo, travertino; la cosa più soffice è il tufo. Che vuoi levità? Grazie al cielo, non possiamo fare reset e cancellare tutto, Venezia Pompei Agrigento».
I salotti romani non esistono più?
«Esistono ancora, ma politicamente non contano più nulla. L’ultimo a troneggiare è stato l’attovagliamento settimanale di Mariasaura, sedicente vedova Angiolillo, che in realtà si chiamava Girani Maria: Renato Angiolillo non l’aveva mai sposata. Il suo villino sul cucuzzolo di Trinità dei Monti era la stanza di compensazione del potere politicante. Gran ciambellano, Gianni Letta; che resta il vero governatore di Roma».
Ora però sta tornando Berlusconi.
«Berlusconi non è mai stato un uomo di potere, ma di interessi. I propri. Bada al bilancio delle sue aziende. Le nomine le faceva e le farà Letta».
Perché lei ce l’ha tanto con Renzi?
«Non è vero. L’ho conosciuto e l’ho trovato vispo come un giocatore di poker con attitudine al bluff. Ma, da perfetto provinciale, ha esagerato. Voleva distruggere i quadri intermedi dello Stato, dai sindacati a Bankitalia; alla fine il grande rottamatore è riuscito a rottamare solo se stesso».
Lei è cattivo.
«No, solo un po’ stronzo. A volte irriverente per smania stilistica. Dagospia non è un blog ma è “pensiero visivo” in tempo reale. Spesso sono le mie presunte vittime a fornirmi il materiale. La prima fu Valeria Marini, che mi consegnò le foto dei suoi baci con Vittorio Cecchi Gori. Dagospia è il racconto del nostro tempo. Che è il tempo dell’insostenibile pesantezza del narcisismo di massa».
Non c’è proprio nessun politico che stima?
«Ce ne sono diversi. In primis, Rutelli che ha amministrato bene Roma, e oggi è rimpianto da tutti. Amato è molto intelligente. Delrio non è solo una brava persona. Ma nell’era della rete chiunque, da Trump a Merkel, diventa un fotomontaggio buffo».
Un disastro.
«Una sana dissacrazione. Roma del resto non confonde mai la cronaca con la Storia. In passato ci siamo fatti abbindolare prima dal mito di Kennedy, poi da quello di Mao: un predatore sessuale e un serial killer di massa».
È vero che lei faceva l’impiegato di banca?
«E baciavo la scrivania, che mi consentiva di riempire il frigo. Avevo bisogno di lavorare. Mio padre era un saldatore alla Romanazzi di Centocelle. Perse un polmone, lo mandarono a casa come un attrezzo fallato. Mamma era bustaia, faceva reggiseni. Sono cresciuto a San Lorenzo, un fantastico quartiere popolare, non ancora infestato dagli studenti. Frequentavo l’oratorio, Azione cattolica, boy scout. Poi scoprii un oratorio laico: il Piper. Ballavo con Patty Pravo, la Bertè, Paolo Zaccagnini, Alberto Dentice».
E Renato Zero.
«Allora si chiamava Renato Fiacchini, Zero fu un’invenzione di Boncompagni. Figlio di un poliziotto, viveva in un condominio di poliziotti: usciva vestito da cristiano e veniva nell’androne di casa mia a vestirsi da Renato Zero. Una sera facciamo un giro in centro su una 500 decapottabile, alla guida un amico. In via Sicilia l’incrocio fatale, un auto ci colpisce in pieno e finiamo dentro una vetrina. Usciamo dal tettuccio tutti insanguinati e ci portano al Policlinico. Solo che io vengo indirizzato al reparto maschile e Renato a quello femminile; magro magro, bellissimo con i capelli lunghi e la tutina aderente, l’avevano preso per una ragazza. Allora grido disperato: “Ma che fate? Dove lo portate il mio amico? C’è un errore, è un uomo...”».
Erano gli anni della Beat Generation.
«Ero balbuziente e ho passato l’adolescenza a leggere. Sulla strada fu una folgorazione, a cominciare dalla prefazione di Fernanda Pivano. Saputo che era scesa all’hotel Hassler, andai con Zaccagnini a conoscerla. Ci vestimmo da “on the road”, quasi da zingari, con gilet e tutto: non ci fecero entrare. “Ma noi abbiamo un appuntamento con la signora Pivano!”. “Eccola”. La donna che aveva scoperto la Beat Generation era una sciura con caschetto, tailleur, borsetta Gucci e filo di perle. Diventammo molto amici. Suo marito Ettore Sottsass invece era un po’ ispido».
Poi vennero gli anni di piombo.
«A Roma era guerra civile. Se ti presentavi nel quartiere di destra vestito da uno di sinistra eri finito. Una volta passai a piazzale Clodio, avevo i regolamentari capelli lunghi ed eskimo, mentre una banda di fascisti usciva dal Tribunale; e non potendo picchiarmi sotto gli occhi dei carabinieri, mi circondarono e mi fecero una doccia di sputi. Un periodo orribile. Finito solo con l’intuizione di Renato Nicolini».
L’estate romana.
«Da assessore capì che la guerra era finita. Io già facevo nel dopolavoro bancario il critico musicale e il dj radiofonico, poi iniziai a scrivere per il giornale di Lotta continua. Nicolini mi affidò la parte musicale. Ci inventammo una rassegna a Villa Ada: “Alla ricerca del ballo perduto”, riprendendo l’era felice degli anni 60. L’hully-gully, lo yé-yé. Rispolverammo Beatles e Beach Boys, Rita Pavone e Patty Pravo».
Qui arriva Arbore.
«Renzo per me fu un papà. La “mamma” è Barbara Palombelli, che incontrai all’ Europeo con Mughini e Lamberto Sechi. Quando l’ Espresso mi tolse la rubrica “Spia” per una battuta sull’Avvocato, fu Barbara a suggerirmi di aprire un sito».
Arbore adorava Fellini. Lei l’ha conosciuto?
«Perdevo i capelli e finii in un centro di tricologi tedeschi che riempivano i bulbi del cranio di creme. Un giorno levai lo sguardo e mi trovai a fianco Fellini, anche lui incremato come una torta. Mi resi conto con sollievo che anche i geni soffrono a diventare calvi. Federico parlava con malinconica angoscia dell’insostenibile rumore che fa un capello che cade».
A «Quelli della Notte» lei faceva il lookologo.
«Ho avuto la fortuna di frequentare i grandi intellettuali: Arbasino, Bonito Oliva, Federico Zeri, con cui ho scritto un libro ( Sbucciando piselli ), Beniamino Placido, di cui seguivo i seminari alla Sapienza. Mi colpì Gianni Vattimo e il suo “Pensiero debole”, postmoderno e postideologico: il commento della realtà che prende il posto della realtà. La tecnologia è la nuova ideologia, con algoritmi e software al posto di partiti e sindacati».