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 2017  novembre 13 Lunedì calendario

Perché troppo Stato fa male all’economia

Jean-Baptiste Colbert, il grande ministro di Luigi XIV, è passato alla storia per aver sperimentato la singolare alleanza di libertà e mercantilismo, tanto che la versione francese di quest’ultimo si chiama colbertismo. Colbert si dichiarava sostenitore della libertà dei commerci, ma praticò il protezionismo. Protesse l’industria nazionale proibendo l’ingresso dei prodotti stranieri che potessero far concorrenza a quelli francesi (questa vicenda è narrata da un grande lavoro storico di Philippe Minard, La fortune du colbertisme. État et industrie dans la France des Lumières, Fayard, Paris, 1998). 
In Italia non abbiamo un Luigi XIV e nei governi i ministri possono al massimo considerarsi dei Colbert in sedicesimo, ma stiamo sperimentando le stesse contraddizioni, sotto
il nome di «leggi antiscorrerie», rivolte, in sostanza, a investitori stranieri. 
I governi italiani hanno cominciato a fare la voce grossa nel 2012, introducendo «poteri speciali» dell’esecutivo in alcuni settori. Hanno poi allargato tali poteri. Ora, il decreto legge in corso di conversione in legge amplia ulteriormente tali «poteri speciali» (chiamati anche «golden power», per nobilitarli) e appesantisce gli obblighi che ne conseguono. 
Ma andiamo in ordine. La legge del 2012 prevedeva obblighi di notifica dei privati investitori e poteri di veto del governo nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché in quelli dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni. In questi ultimi casi, in ipotesi di grave pregiudizio per la sicurezza e il funzionamento delle reti e degli impianti, e per la continuità degli approvvigionamenti. Già questo dovrebbe preoccupare chi sa quante violazioni dello Stato di diritto sono state commesse nella storia, in nome della sicurezza e della difesa; conosce la Costituzione italiana secondo la quale all’iniziativa privata possono disporsi limiti, ma con legge; ricorda che già la denominazione («poteri speciali») costituisce un regime d’eccezione. 
Ora, però, con la norma che il Parlamento si accinge ad approvare definitivamente, si fanno tre passi avanti. Si ampliano i settori nei quali i governi possono intervenire ponendo veti, includendo quelli ad «alta intensità tecnologica» (che cosa può sfuggire oggi a questa denominazione?) e facendone un primo elenco esemplificativo. Viene inserito, accanto al pericolo per la sicurezza, il pericolo per l’ordine pubblico (dizione nella quella storicamente si può far rientrare quasi tutto). Si rimette al governo di stabilire quali sono le attività «ad alta intensità tecnologica» (dobbiamo quindi sperare nella mitezza dei governi, considerato che hanno mano libera). 
Il neo-colbertismo nostrano contrasta con la politica dei governi italiani e viola principi sia costituzionali, sia internazionali. Questo allargamento e appesantimento delle norme antiscorreria contrasta, innanzitutto, con una politica conclamata da tutti i governi degli ultimi venti anni, quella di semplificazione. Il secondo comma dell’articolo 2 della norma del 2012, la cui portata viene ora ampliata, prevede la notifica al governo dei seguenti atti: modifiche della titolarità, del controllo e della destinazione degli attivi; cambiamento della loro destinazione; delibere assembleari e del consiglio di amministrazione di fusione o scissione, trasferimento all’estero della sede sociale, mutamento dell’oggetto sociale; scioglimento della società; modifica di clausole statutarie; trasferimento dell’azienda o di rami di essa; trasferimento di società controllate. 
In secondo luogo, la nuova politica protezionistica viola un principio sviluppato dalla Corte costituzionale, quello di legalità sostanziale. Secondo la Corte, la «riserva di legge» dell’articolo 41, secondo la quale possono porsi limiti all’iniziativa privata solo con legge, va rispettata non solo dal punto di vista formale, con una legge che attribuisce poteri, ma anche da un punto di vista sostanziale, disciplinando l’esercizio dei poteri con legge. 
Altrimenti, l’esecutivo ha mano libera. In terzo luogo, anche se le norme antiscorrerie sono diversificate, per imprese europee e per società extra europee, ci si può chiedere che tipo di liberismo sia quello di coloro che prima auspicano l’abbattimento delle frontiere economiche (aderendo all’Organizzazione mondiale del commercio e all’Unione europea), e poi ricostituendole, in nome del nazionalismo economico.
In quarto luogo, le politiche governative che vanno in questa direzione rischiano la schizofrenia. Da un lato, si introducono veti. Dall’altro, si cerca di rendere il contesto italiano meno ostile agli investimenti stranieri, (specialmente da quando si sono diffuse le statistiche di Doing business, che collocano l’Italia ad un posto molto basso nelle classifiche dei Paesi con ordinamenti giuridici favorevoli all’investimento straniero).
Infine, gli autori di queste politiche sembrano ignorare che l’Italia investe a sua volta all’estero, che acquista imprese straniere, che fa parte di conglomerati multinazionali. Non ci sono da temere ritorsioni? L’argomento che qualche Paese ha introdotto norme simili (ma meno pesanti) non funziona, perché, se a ogni colpo straniero rispondiamo come Pier Capponi a Carlo VIII, finiremo per ristabilire steccati economici nazionali peggiori di quelli che ci portarono a tante guerre.