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 2017  ottobre 11 Mercoledì calendario

La classifica sulla corruzione è una boiata

Anche quest’anno “Trasparency International”, puntuale come un 2 novembre, ha spiegato che noi italiani siamo corrotti sino al midollo (60 ̊ posto su 176 paesi) e terz’ultimi nella classifica europea davanti solo a Grecia e Bulgaria, mentre per il resto siamo peggio di vari paesi del Terzo mondo. Ieri la ong ha diffuso le ultime pagelline e ha spiegato che la nostra legislazione è carente e che la nostra capacità sanzionatoria è insufficiente: tutti dati che da qui ai prossimi mesi diverranno vangelo e verranno branditi come certezze da sprovveduti, impallinati, oppositori vari e lordatori del costume italico. Ed è quanto basta per tornare a chiedersi, ancora una volta: ma chi è, Transparency? Ma chi li ha nominati, qualificati, legittimati? Perché, soprattutto, in Italia siamo abituati a discutere e sezionare ogni dato possibile in sede politica o nei talkshow e i dati di Transparency invece ce li beviamo come se fossero un dogma e non, metti caso, la cazzata annuale di un organismo poco “transparency”? 



Vediamo di capire. Per cominciare: se i dati sulla corruzione fossero certi, ovviamente, corrisponderebbero a casi finiti in tribunale, e saremmo a posto. Chiaro che la metodologia d’indagine dev’essere un’altra, e infatti si tratta di “corruzione percepita”, fattore poi trasformato in materiale statistico, in pratica, sulla base dell’umoralità e del disfattismo di un popolo. Un po’ come se, con meccanismo contrario, chiedessero ai francesi come percepiscono la loro cucina. 
Succede questo: ogni anno questa ong pubblica un “indice di corruzione percepita” e s’inserisce nel “Barometro mondiale della corruzione”: ma si tratta di sondaggi. Fatti bene, fatti male: sondaggi. Sondaggi su una “percezione”: in un caso domande a uomini d’affari e delle istituzioni, in un altro a cittadini qualsiasi. Ma obiezione logica la corruzione non è come il freddo o il caldo percepiti, che almeno forniscono un simultaneo riscontro: la percezione di un fenomeno così generico, nel caso, dipende dal tono dei media e del clamore di inchieste anche inconsistenti, come spesso sono quelle italiane. Ma dipende, questa percezione, anche dal rilancio di dati e suggestioni come quelli di Transparency International: che a furia di rilanciare percezioni della corruzione, giocoforza, finisce per creare percezioni della corruzione. Questo è pacifico. A questo si aggiunge il ruolo della stampa italiana: che lo spiegò l’anno corso uno studio della rivista “il Mulino” parla della corruzione come nessun altro nessun paese europeo; in secondo luogo, ne parla solo quando ci sono in ballo delle inchieste giudiziarie, nel senso che i media vanno al traino delle procure. Morale: più notizie leggerò sulla corruzione, più riterrò di vivere in un paese corrotto. E la percezione s’ingrossa. 
Nonostante i dubbi di periodici come l’Economist («Il punto di vista degli italiani sulla corruzione sembra essere plasmato più dalle ciance che dai fatti», scrisse nel 2016) ogni anno fingiamo quindi di berci i dati di Transparency e il relativo Cpi italiano (Corruption perceptions index) che viene poi sparato come un dato inoppugnabile. Sino all’anno scorso, almeno, c’erano anche il Bpi (Indice di Propensione alla Corruzione) e il Nis (non abbiamo capito che cos’era). La Ong di Transparency è brava mediaticamente: nonostante non vanti personaggi che buchino lo schermo, hanno avuto inviti a trasmissioni come Agorà, Coffee Break, Tagadà e Tg Sky24, pur con esiti non memorabili. La ong, comunque, nasce Berlino nel 1993 mentre la sezione italiana è del 1996, fondata da personaggi non noti. In teoria la ong fa un sacco di cose: cosiddetti eventi, pubblicazioni di indici, il Premio Giorgio Ambrosoli, e campa con finanziamenti vari: Pirelli, Snam, Luxottica, agenzia Pomilio Blumm, Terna, Npi Italia, Nctm (studio legale) e Inaz (software) eccetera. Nell’Advisor Board compaiono molti personaggi che sono tutti a noi sconosciuti tranne l’ex pm Gherardo Colombo e Leo Sisti, collaboratore dell’Espresso. Negli anni passati c’era anche Ettore Albertoni (ex consigliere regionale ed cda Rai in quota Lega) e Piero Bassetti (imprenditore “moralizzatore” e politico progressista). Per il resto la ong raccoglie il 5 per mille per organizzare seminari formativi, percorsi di educazione civica, incontri con associazioni di categoria, studi su studi, collaborazioni con Ocse, World Bank e Fmi. Risultano pagamenti da Comune di Milano, Unioncamere, Ferrovie Nord Milano, Avepa (agenzia per i pagamenti in agricoltura), Camera di Commercio ed enti pubblici vari (compresa la presidenza del Consiglio, cui è stato rendicontato il progetto EU Workshop Match-Fixing: non chiedeteci che cosa sia) più, ancora, privati come Siemens ed Enel. Transparency Italia, insomma, percepisce soldi anche dallo stesso settore pubblico di cui dovrebbe certificare la corruzione. E hanno una biblioteca dove compaiono volumi di Giorgio Pisanò, Circolo Società Civile, Ferdinando Imposimato, Saverio Lodato, Marco Travaglio e Piercamillo Davigo. Al volume “Partiti politici, trasparenza e democrazia”, editato da Transparency, hanno collaborato Pippo Civati, Elio Veltri, Umberto Ambrosoli ed stato finanziato della Commissione europea, come molti altri libri della Ong. 
Gli affari vanno bene. Il loro 2016 si è chiuso con un attivo di 30.533 euro ricavati lavorando col pubblico e col privato, hanno 4 dipendenti full time e 2 part time, più un sacco di collaboratori. Si sono appena comprati un ufficio nuovo in via Zamagna, a Milano. L’anno scorso, su Libero, avevamo riportato il contenuto di una loro pagina informativa, che ammetteva: «Un dato reale sulla corruzione non esiste o, meglio, non è calcolabile... (tuttavia) la percezione, soprattutto se proviene da esperti e uomini d’affari, è l’unica misura in grado di darci un quadro globale del fenomeno». Quest’anno, la frase, non l’abbiamo trovata più. Ma, come la corruzione, la percepiamo.