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 2017  agosto 18 Venerdì calendario

Arcipelago Russia. Essere Dissidenti a Mosca

La storia delle proteste nella Russia post-sovietica è una storia di lunghi letarghi e improvvisi risvegli. Dopo il rovente autunno del 1993 e la Rivoluzione bianca di cinque anni fa, anche i cortei anticorruzione della scorsa primavera potrebbero essere stati solo un singulto momentaneo. Pongono però una sfida a Vladimir Putin a pochi mesi dalle elezioni. Non sono una minaccia per il suo quarto mandato presidenziale, ma aprono le crepe in un regime cristallizzato da troppo tempo. Il risorto malcontento ha avuto il merito di ridare impeto a un’opposizione demoralizzata dalle persecuzioni e a una popolazione schiacciata dalla corruzione. Aleksej Navalnyj, l’unico che sia riuscito a catalizzare lo scontento, gli altri pochi reduci delle manifestazioni in piazza Bolotnaja, i giovanissimi che non ricordano altro leader che Putin e i cittadini arrabbiati delle periferie hanno fatto sentire la loro voce. Se le proteste svaniranno o diventeranno una forza per il cambiamento, dipende da loro.
MOSCA C’è fervore attorno a un tavolo del Coffee Point, punta Est della piccola isola Balciug nel centro di Mosca. Marja e Anastasja, gemelle quasi trentenni, ticchettano sui loro cellulari. Alissa, 19 anni, scorre lo schermo di un portatile divorando patatine fritte. Scure in volto, gesticolano nervosamente. Sono vestite a festa, chi un tubino nero di paillettes, chi un abito rosa di taffetà. Questo sabato 8 luglio doveva essere un giorno speciale: il primo “Grande Subbotnik”, così chiamato in omaggio alla tradizione sovietica delle giornate di lavoro gratuito per la collettività. Mille volontari in t-shirt bianca, armati di palloni rossi, sguinzagliati per tutta la città a distribuire volantini e opuscoli ai passanti. Una mobilitazione per salutare l’uscita dal carcere dopo 25 giorni di detenzione del loro capofila: Aleksej Navalnyj, il primo – e finora unico – candidato alle presidenziali russe del marzo 2018. Una festa. Guastata. E non dalla pioggia, sebbene, certo, non aiuti. Due giorni prima la polizia ha sequestrato i locali del quartier generale moscovita della campagna elettorale, inaugurato a fine maggio al numero 69 del lungofiume Sadovnicheskaja. Nikolaj Ljaskin, il coordinatore, non si è perso d’animo. Ha dato appuntamento a tutti qualche civico più in là, in questo café diventato provvisoriamente ufficio. I volontari arrivano alla spicciolata. Ljaskin chiede aggiornamenti. Alissa agita le mani stizzita: circolano foto di barboni che indossano berretti con il logo di Navalnyj. «Una provocazione. Vogliono screditarci. Stanno rovinando tutto». Marja mostra il cellulare scuotendo la testa: ci sono notizie di primi fermi. Ma la mobilitazione continua. Al riparo di una tettoia, Ljaskin gonfia palloncini, distribuisce materiale e dà le ultime istruzioni. Una foto per i social, poi i volontari si allontanano in coppia sfidando la pioggia e lo sguardo severo dei poliziotti appostati su un ponte pedonale. La diciottenne Olga parte alla volta di Oktjabrskaja. «La polizia? Non mi spaventa. La corruzione aumenta. Ne siamo vittima tutti. Bisogna spargere la voce, far sapere che Navalnyj vuole combatterla. Voglio che diventi presidente. Putin è al potere da troppo tempo». A sera si fa un bilancio: 82 attivisti fermati in tutto il Paese, 51 a Mosca. Portavano i palloni rossi. Era difficile che passassero inosservati. «Domani – commenta Ljaskin – ne useremo meno».
L’affare Bolotnaja

Nell’inverno 2011, dopo quattro anni come primo ministro, Putin era pronto a veleggiare verso il ritorno alla presidenza quando sotto le torri del Cremlino eruppe lo slogan “Rossija bez Putina!”. Decine di migliaia di manifestanti si erano convinti per la prima volta che una “Russia senza Putin” fosse possibile. In risposta alle accuse di brogli alle parlamentari, in strada era comparsa un’inedita coalizione: militanti di sinistra e di destra, ecologisti e nazionalisti, hipster e intellettuali. Per mesi diedero vita alla più grande manifestazione di dissenso mai vista a Mosca dagli anni Novanta. La chiamarono “Rivoluzione bianca” dal colore dei nastri scelti come simbolo della protesta in piazza Bolotnaja. Molti pensarono fosse l’inizio della fine di un’era, una “primavera russa”, ma, così come si erano riempite, le strade si svuotarono. «Riuscimmo a innervosire il Cremlino e persino a farlo scendere a compromessi, ma l’ondata di proteste venne arrestata». Faccia da bambino, fisico minuto, a 34 anni Ilja Jashin è già un veterano dell’opposizione. Da leader dell’ala giovanile del partito liberale Jabloko, negli anni Duemila prendeva parte a ogni contestazione. La “marcia dei dissidenti” promossa dallo scacchista Garri Kasparov candidato, e sconfitto, alle presidenziali 2008. Le passeggiate non autorizzate organizzate dal collettivo “Strategia 31” di Eduard Limonov, scrittore protagonista del libro di un altro, Emmanuel Carrère. Ex vicepresidente del Partito della libertà popolare Parnas, Jashin ha poi cofondato il movimento Solidarnost, creatura dell’ex vicepremier eltisiniano Boris Nemtsov, diventato leader e poi martire dell’opposizione. Ci dà appuntamento al Jean Jacques su Tsvetnoj Bulvar, uno dei bistrot ritrovo di giovani rivoluzionari cinque anni fa. «Una scelta casuale», assicura sorridendo. «Abito qui vicino». Nel 2011 Jashin era uno dei leader delle proteste. Fu anche una delle vittime della successiva repressione: i fermi e le perquisizioni. Una volta, non trovandolo in casa, la polizia fece irruzione nell’appartamento della sua allora compagna Ksenia Sobchak, la “Paris Hilton russa”. Coppia improbabile: lui uomo di barricate, con più arresti alle spalle che soldi in banca, lei vedette della tv e presunta figlioccia di Putin. Li avevano soprannominati i “Romeo e Giulietta della Rivoluzione”. A spegnere la rivolta, dice oggi Jashin, fu una somma di fattori. Primo, la tenaglia delle autorità. Il 6 maggio 2012, vigilia del terzo mandato presidenziale di Putin, le proteste sfociarono in scontri tra dimostranti e polizia. Furono il pretesto per il cosiddetto “affare Bolotnaja”, una serie di detenzioni e inchieste tanto arbitrarie quanto dissuasive. «Spesso dietro alle sbarre finiva la gente comune. Il messaggio era chiaro: se seguite i leader dell’opposizione, la pagherete». Poi ci fu la “stampante impazzita”, come il giornale indipendente Novaja Gazeta chiamò la raffica di leggi liberticide: divieto di finanziamenti dall’estero alle ong, limiti alle manifestazioni, museruola ai media. Il colpo finale fu la propaganda e la retorica imperialista seguita alla nuova “piccola guerra vittoriosa”: il conflitto in Est Ucraina e l’annessione della Crimea nel 2014. Con la crisi delle relazioni tra Russia e Occidente, protestare contro il governo era diventato un insulto alla patria. Gli oppositori erano “nemici dello Stato” o, peggio, “agenti stranieri”. Fine dei giochi. Battaglia persa. Svuotate di consenso, incapaci di elaborare una piattaforma unificante, le forze liberali persero la capacità e la voglia di reagire. Oggi sono tornate alla loro tradizionale posizione di debolezza. Dei leader della piazza di un tempo non resta quasi più nessuno. Molti hanno scelto l’esilio: Kasparov, la paladina del bosco di Khimki Evgenija Chirikova, lo scrittore Boris Akunin. Sobchak ha lasciato Jashin e la politica. Il leader di estrema sinistra Serghej Udaltsov è stato messo fuori gioco dalle inchieste. Il deputato di Russia Giusta Ghennadj Gudkov si è visto revocare il mandato parlamentare ed è finito nelle retrovie. Mentre l’ex ministro delle Finanze e premier Mikhail Kassianov è stato azzoppato da uno scandalo sessuale. E Boris Nemtsov è stato ucciso il 27 febbraio 2015. Ilja Jashin è rimasto anche dopo l’assassinio del suo mentore. Ha raccolto il suo testimone e, sette mesi dopo, alle amministrative, era uno dei soli sei candidati d’opposizione su oltre 187mila aspiranti deputati locali. Sapeva di perdere. Eppure ci ha provato. Un canarino nella miniera. «Faccio quello che ritengo opportuno. Ho la fortuna di essere ancora vivo e libero. Ci sono stati momenti in cui ho avuto paura», confessa. «Ero consapevole di correre dei rischi, i miei amici mi consigliavano di espatriare. Ma non possiamo andarcene tutti. Qualcuno deve restare. Ricordo che cinque anni fa l’opposizione aveva più capi che attivisti. Poi tutto è cambiato. Fortunatamente adesso è comparso un leader, Navalnyj».
Il blogger anti-corruzione
Cinque anni fa Aleksej Navalnyj era solo uno dei tanti organizzatori delle proteste e, benché popolare, non uno dei più influenti. A differenza di Nemtsov, Kasparov o Kassianov, non aveva un suo partito, non era mai stato un candidato e non aveva alcuna esperienza di governo. Oggi l’uomo che iniziò con un blog è diventato il solo volto riconoscibile della cosiddetta “opposizione non- sistemica”. Senza bisogno di coalizioni, ma grazie a centinaia di migliaia di seguaci online. Papà militare e mamma economista, Navalnyj nasce 41 anni fa. Una laurea in Legge e un master in Finanza, si unisce a Jabloko, ma la partecipazione alle Marce russe, annuale raduno di ultradestra, e al lancio del movimento nazionalista Narod, nel 2007 gli costano l’espulsione dal partito dei liberali. Dopo una borsa di studio di sei mesi alla Business School di Yale, acquista azioni nelle compagnie statali come Rosneft e Gazprom. È così che inizia la sua lotta alla corruzione. Invocando il suo statuto di azionista di minoranza, esige trasparenza sui conti e sulle aste pubbliche. Apre un blog e poi il sito Rospil. Nel 2012 crea la Fondazione anticorruzione. Sono gli anni delle manifestazioni in Piazza Bolotnaja. Talentuoso oratore, il giovanotto alto e biondo dagli occhi blu, il “Julian Assange russo”, s’impone con la virulenza dei suoi attacchi. Conia slogan accattivanti come “partito dei truffatori e ladri” per Russia Unita al potere. Galvanizza le folle, ma il suo accento nazionalista e xenofobo lo scredita. Con Putin tornato al timone, iniziano i suoi guai con la giustizia. Il fratello minore Oleg finisce in carcere. Ma Aleksej non si ferma. Nel 2013 si candida a sindaco di Mosca: nella sorpresa generale ottiene il 27 percento dei voti sfiorando il ballottaggio con Serghej Sobjanin. Nel dicembre scorso si è candidato a un posto che nessuno, neppure Putin, ha finora reclamato: la presidenza. Una missione donchisciottesca. E non solo perché il consenso di Putin non vacilla. Secondo la legislazione russa, un cittadino con precedenti penali non può candidarsi. E Navalnyj ha alle spalle due condanne al carcere con la condizionale per reati finanziari. Tutti inventati e costruiti ad arte, sostiene lui incurante, invocando la Costituzione che vieta di correre solo ai cittadini dietro le sbarre. Avvicinare Navalnyj non è facile: centellina gli incontri con i media stranieri. La sua agenda – ci ha detto la portavoce Kira Jarmish – è piena fino a settembre. Da quando ha annunciato la candidatura, ha viaggiato per tutta la Russia aprendo uffici in 63 città. A ogni inaugurazione grande afflusso di simpatizzanti, ma anche provocazioni. È stato colpito due volte con la “zeljonka” o “verde brillante”, un antisettico difficile da lavare. I filoputiniani lo usano per marchiare il “nemico”, Navalnyj con un tweet ha trasformato la sua faccia verde in una medaglia al valore. La sua campagna è fatta anche di furbizie come questa. Aleksej conduce la sua battaglia sul terreno e aggira il blackout televisivo grazie a Internet. Blogger e twittatore prolifico, ogni giovedì tiene un Live alle 20.18, un’allusione alle presidenziali. I suoi attivisti tappezzano auto e cellulari di adesivi. È così che è diventato un protagonista nella Russia politicamente esangue di Putin: “l’Obama russo” con l’immagine da moscovita normale che vive in un appartamento modesto, attorniato da una famiglia amorevole, la moglie Julija e i due figli, Dasha e Zahar. La sua strategia premia, sostiene Lev Gudkov, il direttore di Levada Center, l’istituto di sondaggi indipendente bollato come “agente straniero”. Gudkov snocciola cifre sfogliando le statistiche nel suo studio a pochi passi dalla Piazza Rossa: «Due russi su tre sanno chi è Navalnyj, ma solo la metà ne ha un’opinione positiva. A Mosca, dove lo conoscono meglio, è pronto a votarlo il 20 percento, nelle province il sei-otto percento. Una percentuale comunque superiore a quella di Jabloko e Parnas, fermi all’uno. È di certo il politico d’opposizione più noto ed efficace». La campagna dell’infaticabile censore dei circoli del potere oggi conta 130mila volontari, oltre 1,7 milioni di iscritti ai canali YouTube e quasi cento milioni di rubli ( 1,4 milioni di euro) di fondi grazie al crowdfunding. Ha raccolto oltre 570mila firme ma, se gli sarà permesso di partecipare alle elezioni, gliene basteranno 300mila. La sua piattaforma è focalizzata sulla lotta alla corruzione e sui sentimenti anti-élite. Slogan vaghi e populisti. Ma la sua forza è un’altra. Ha dimostrato di essere l’unico in grado di mobilitare la popolazione.
Le novità delle proteste

«Rossija bez Putina». A cinque anni dalla repressione che mise fine alla Rivoluzione bianca, in primavera il motto impensabile è tornato a risuonare nelle strade moscovite. L’ondata di proteste promosse da Aleksej Navalnyj ha attraversato la Russia partendo dal porto sul Pacifico Vladivostok e rotolando verso Ovest lungo 11 fusi orari fino all’enclave di Kaliningrad sul Baltico. Demoralizzata e messa a tacere, l’opposizione che sembrava moribonda ha ritrovato voce. Il 26 marzo, esattamente 17 anni dopo la prima elezione di Putin a presidente. Poi di nuovo il 12 giugno, Giorno della Russia, festività nazionale. La prima volta sono scese in piazza circa 150mila persone in 99 città. Nonostante gli oltre mille arresti, tre mesi dopo si sono mobilitate 187 città, il doppio. Ma non sono i numeri a impressionare. Decine di migliaia di persone sono una goccia nel mare se si pensa che la sola Mosca conta oltre 12 milioni di abitanti. A colpire gli osservatori – e a preoccupare il regime – sono state le novità delle manifestazioni. Si è trattato di cortei perlopiù non autorizzati, ad alto rischio di scontri e arresti. Il primo a essere fermato è stato proprio Navalnyj: in marzo appena sbucato dal metrò, in giugno sull’uscio di casa. Decapitare la protesta non l’ha fermata. Segno che i cittadini sono pronti a rischiare e non hanno bisogno di un leader. Altro fatto nuovo: i dimostranti non sono scesi in piazza contro un’ingiustizia come le elezioni nel 2011, ma contro un fenomeno permanente e strutturale, la corruzione d’élite. La miccia è stata la video-inchiesta diffusa il 2 marzo dalla Fondazione di Navalnyj e la mancata reazione alle sue accuse da parte delle autorità. Vista 24 milioni di volte su YouTube, bersaglia il primo ministro Dmitrij Medvedev dettagliandone le fortune occultate – proprietà immobiliari, tra cui una villa in Toscana, yacht e orologi di lusso – che sarebbero in parte finanziate da presunte donazioni di oligarchi a charity intitolate a prestanome. In un Paese che dopo due anni si sta lentamente trascinando fuori dalla recessione, la corruzione si è rivelata un grido di battaglia più convincente di concetti vaghi e astratti come la democrazia o i diritti umani. Non prendendo di mira Putin, Navalnyj ha fatto poi leva sul risentimento privato di una gran fetta di popolazione leale al presidente, ma esasperata dalle malversazioni. Certo, nel ritorno dello slogan “La Russia senza Putin”, c’era anche la strisciante sensazione che, dopo 17 anni, Vladimir Vladimirovic stia esaurendo gli argomenti per giustificare il continuo monopolio del potere. Ma l’obiettivo delle proteste, l’agnello sacrificale per l’economia impantanata, non era lui. Era Medvedev. Le paperelle di plastica e le scarpe sportive annodate al collo erano un’allusione al denaro speso dal premier in uno stagno popolato da anatre o in un’impressionante collezione di sneakers. I cortei primaverili hanno infine mostrato una nuova geografia e una nuova demografia dell’opposizione. A differenza di cinque anni fa, quando le proteste erano per lo più concentrate nelle grandi metropoli, a mobilitarsi sono state anche province tradizionalmente conservatrici. Ma la novità più grande è stata la massiccia presenza di giovani, persino giovanissimi. La “Generazione Putin”. Ragazzi nati intorno al 2000 che non ricordano un altro leader. Rappresentano il futuro della Russia. Il Cremlino non può rischiare di perderli.
La Generazione Putin

Faccia imberbe da bravo ragazzo, Roman Shingarkin non ha ancora l’età per votare alle amministrative di settembre. «Diventerò maggiorenne a metà ottobre, in tempo per le presidenziali». Zainetto in spalla, aspetta di conoscere l’esito degli esami di maturità quando ci ritroviamo in una piazzetta nel quartiere dei mercanti di Zamoskvorecje a Sud della Moscova. Non sa ancora quale facoltà sceglierà. «Geografia economica forse. O Politologia». Lo scorso 26 marzo è sgattaiolato fuori casa per partecipare al corteo senza dirlo ai genitori. «Non mi vietano nulla, ma temevo che avremmo discusso. Seguo Navalnyj su YouTube. Avevo visto il video su Medvedev ed ero indignato dalla mancata risposta delle autorità e dalla negata autorizzazione della marcia, una palese violazione della Costituzione». Al culmine delle tensioni tra manifestanti e poliziotti, Roman ha inconsapevolmente lanciato un guanto di sfida arrampicandosi su un lampione in piazza Pushkinskaja. «Mi davano gomitate. Ho pensato che lassù nessuno mi avrebbe dato fastidio e in più sarei riuscito a vedere meglio». In cima ha trovato Pavel Djatlov. Sono diventati amici così. «Due compagni di sventura». I poliziotti hanno gridato loro di scendere, Roman e Pavel si sono rifiutati tra gli applausi della folla. La foto dei gendarmi impotenti davanti ai due giovani sbruffoni aggrappati a un lampione è diventata subito virale. Icona di due piccoli Davide contro Golia. Che alla fine però sono finiti in un furgone della polizia. Sono stati rilasciati solo dopo l’arrivo dei genitori. È così che Maksim Shingarkin, politico e attivista di lungo corso, ha scoperto in che guaio si fosse cacciato il figlio. Ex militare di carriera, poi attivista di Greenpeace, Maksim è stato assistente dell’ex leader di Jabloko Serghej Mitrokin quand’era deputato. Nel 2012 è entrato alla Duma nella lista del Partito liberaldemocratico di Vladimir Zhirinovskij, un nazionalista vicino al Cremlino. L’anno scorso si era ricandidato con Rodina, ma non è stato eletto. «Rispetta Putin e lo sostiene – spiega Roman – ma pensa che bisogni creare una vera e propria opposizione. Non quella di Navalnyj. Dice che lo finanziano oligarchi che negli anni Novanta rubavano proprio come altri fanno oggi». Il 2 aprile Roman è tornato in piazza per un sit-in convocato sui social. Il padre lo ha lasciato libero di andare, gli ha solo detto: “Tieniti lontano dai pasticci”. «Ma mi hanno fermato comunque accusandomi di disturbare l’ordine pubblico. Tutto falso». Alla fine se l’è cavata con otto euro di multa per la bravata sul lampione. I cortei della scorsa primavera sono stati il battesimo politico di tanti giovani nati, come Roman e Pavel, intorno al 2000, anno della prima elezione di Putin alla presidenza. Beneficiari prima, e ora una minaccia, della stabilità e prosperità garantita dal suo governo. Non hanno subito il collasso dell’Unione sovietica né le privazioni degli anni Novanta. Non ricordano il totalitarismo e non portano il trauma della repressione dell’affare Bolotnaja. Cresciuti a pane e patriottismo, sono tuttavia meno proni del docile “Homo Sovieticus”. In passato il governo era stato abile a incanalare la loro energia lontano dall’attivismo verso i movimenti patriottici Nashi o Junarmia. Ora i giovani sfuggono alla propaganda. Non guardano le tv di Stato, non leggono i giornali allineati. S’informano sui social. La loro Bibbia è YouTube. Paragonano la loro vita non a quella dei genitori sotto l’Urss, ma a quella dei loro coetanei all’estero. Erano loro a gridare in piazza “Pozor”, “Vergogna”. Sanno che se non fai parte del clan, in Russia non fai carriera. Perciò vogliono cambiarla. Navalnyj, con la sua campagna sui social, è stato abile a intercettare la loro frustrazione, anche se non tutti sono pronti a sostenerlo. I teenager russi scesi in piazza però non sono sbucati dal nulla. Fanno parte di un quadro più ampio: un contraccolpo all’agenda di Stato che assume molte forme. Nell’era Putin, ha scritto il giornalista Mikhail Fishman, la vita politica russa è tutta questione di voglia di cambiamento di ampi segmenti della società e di resistenza al cambiamento da parte della leadership. Cinque anni fa la battaglia venne persa. Ora però sembra esserne nata una nuova.
Il malcontento della periferia
Davanti alla fermata della metropolitana Novokuznetskaja di Mosca, Julija Galjamina distribuisce nastri bianco-rossi, quelli usati per cordonare i cantieri. «Saranno il nostro simbolo. Vogliono toglierci la cosa più preziosa che abbiamo, ma non glielo permetteremo». Ad ascoltarla cittadini che non si erano mai interessati alla politica e non erano mai scesi in piazza finché il sindaco Sobjanin non ha annunciato il contestato “piano di rinnovamento”: la demolizione di migliaia di “krusciovke”, le case popolari volute da Nikita Krusciov, che oggi ospitano oltre un milione di moscoviti. Sit-in e proteste sono un copione sempre più comune in Russia, soprattutto nelle province. Le vertenze sociali ed economiche, seppure contenute e localizzate, crescono in numero e intensità e si propagano come onde dai posti tradizionalmente più irrequieti come le grandi metropoli verso regioni un tempo sonnolente. Nella prima metà dell’anno il Centro per la riforma economica e politica (Cerp) di Mosca ne ha contate 662, il 35 percento in più rispetto al 2016. Un aumento che smentisce la tradizionale letargia della popolazione russa. I cittadini di Omsk hanno denunciato fuoriuscite inquinanti di gas. Vi sono state contestazioni di pensionati contro la revoca dei loro benefit a Samara e di risparmiatori colpiti dal fallimento di tre banche in Tatarstan. I camionisti organizzano periodicamente blocchi stradali contro il sistema di pedaggio Platon. Le marce a Novosibirsk sono riuscite a bloccare un aumento delle bollette. E, dal maggio dell’anno scorso, gli ex minatori della fallita Kingcoal organizzano picchetti a Gukovo reclamando gli stipendi arretrati: la contestazione più lunga nella storia del Paese. «Crescono anche i movimenti di volontariato, nati dal basso. E aumenta l’interesse per le iniziative culturali. Sono processi importanti. Consolidano la base sociale. Bisogna riempire la piscina d’acqua prima di fare le gare di nuoto», osserva Andrej Lipskij, vicedirettore di Novaja Gazeta, il giornale di Anna Politkovskaja, assassinata nel 2006. Sono questi sommovimenti in corso anche nelle tradizionali roccaforti di Putin a dare meglio la misura di quanto profondo scorra il malcontento in Russia. Al momento non sono una minaccia. I dimostranti spesso chiamano in causa lo stesso Putin perché intervenga a loro favore. L’eco del mantra medievale russo “Lo zar è buono, sono i suoi boiardi ( gli aristocratici locali) a essere cattivi” è ancora viva. «Perché le cose cambino, dovrebbe avvenire qualcosa di esplosivo. La crisi economica non è una miccia sufficiente. La gente non è pronta a usare la forza contro gli agenti di polizia e non ha le leve legali per influenzare l’agenda politica». Ex collaboratore di Rolling Stone Russia, Evgenij Levkovich, 39 anni, è un seguitissimo giornalista indipendente e attivista. Il suo album di Facebook è una carrellata di foto di cortei. «Non sono solo un osservatore, sono un manifestante. A chi, come me, vede l’opposizione da dentro, viene solo da piangere. L’affare Bolotnaja ha fatto piazza pulita. Io? Bevo troppo per tristezza e disperazione per diventare un leader». Il futuro dell’opposizione dipende dalla popolazione: i giovani disoccupati, gli impiegati e i pensionati impoveriti, le imprese in declino, gli abitanti arrabbiati delle città. Se trovassero un territorio comune, dice Evgenij, qualcosa forse potrebbe cambiare. Vecchi dissidenti e nuovi oppositori «Molti non lo capiscono. La Russia di oggi è completamente diversa dalla Russia sovietica». Lo storico Roj Medvedev esordisce così la sua riflessione quando lo incontriamo nella sua dacia appena fuori Mosca. Lucidissimo seppure curvato dal peso dei suoi quasi 92 anni, l’ex dissidente sovietico è oggi un sostenitore di Vladimir Putin. «Non ho alcun motivo per stare all’opposizione. Io, cresciuto come dissidente, perseguitato in patria ed edito all’estero sotto il regime sovietico, oggi mi sento un intellettuale libero. Posso pubblicare i miei libri e scrivere articoli. Non devo chiedere un’autorizzazione né concordare i contenuti». Indugia, strofinando le palme delle mani contro i braccioli della poltrona di pelle, poi ripete: «Io mi sento libero». Passa poi in rassegna i leader dell’odierna opposizione, piccola e fratturata, enumerando i motivi per cui non è pronto a sostenerli. Inizia dalla simbolica rappresentanza parlamentare. Il Partito comunista di Gennadij Zjuganov: «Ha nostalgia di Stalin, non posso appoggiarlo». Il Partito liberaldemocratico di Vladimir Zirinovskij: «Un demagogo populista». Russia Giusta di Serghej Mironov: «Un uomo dalle idee confuse». È la volta dei capofila dell’opposizione “non sistemica”, quella autentica, ma con zero peso nelle stanze del potere e altalenante seguito nelle piazze. Mikhail Kassianov, leader di Parnas: «Un funzionario risentito dopo che Putin lo ha rimosso da premier». L’ex tycoon del petrolio Mikhail Khodorkovskij, amnistiato nel 2013 dopo 10 anni di carcere, che finanzia dall’estero il movimento Open Russia: «I miliardari qui non hanno seguito». Grigorij Javlinskij, cofondatore del partito Jabloko: «Un partito senza influenza né base elettorale». Aleksej Navalnyj, dice infine, «è una figura artificiale, senza programma né storia politica. Non uso Internet e non posso conoscerlo». Medvedev non risparmia nessuno. Il suo giudizio conclusivo è altrettanto inesorabile: «Il malcontento c’è, ma mancano leader e forze politiche in grado di coordinare le varie forme di protesta». I dissidenti di oggi, in effetti, sono marginali. Hanno rotto i codici che li legavano al pantheon dei loro predecessori. Scrittori come Aleksandr Solgenitsin, poeti come Iosif Brodskij, i shestidisiatniki, “quelli degli anni Sessanta”, come Evgenij Evtushenko o Pavel Litvinov, artisti come il ballerino Rudolf Nureyev e il violoncellista Mstislav Rostropovic, scienziati come Andrej Sacharov o Zhores Medvedev, fratello dello storico Roj. Uomini che non avevano potere, ma potevano rivendicare autorevolezza morale.
Il manifestante solitario

La nuova dissidenza parla un linguaggio diverso. La differenza sta in parte nell’età, ma soprattutto nei metodi e nell’obiettivo. La resistenza al comunismo sovietico parlava di diritti umani e di democrazia, spesso attorno al tavolo di una cucina. La resistenza al putinismo parla di denaro e la discussione avviene in Rete. Classe 1943, due nonni nei Gulag, il dissenso negli anni Sessanta, le marce nei Duemila e un attacco con la zeljonka, la scrittrice Ljudmila Ulitskaja le conosce bene entrambe. «Il dissenso – commenta – risponde sempre alla questione dell’epoca. Le generazioni precedenti vivevano sotto la pressa dell’ideologia totalitaria comunista. Il loro scopo era liberarsene. Oggi l’ideologia è stata sostituita da un potere senza scrupoli, cinico e rapace. Per questo le proteste sono più materialiste e meno ideologiche». Una cosa sembra rimasta la stessa: l’incapa- cità del dissenso di farsi opposizione, oggi come allora. Ildar Dadin crede nel potere dei piccoli gesti. Cinque anni fa ha lasciato un lavoro da guardia giurata e ha iniziato a manifestare. Contro l’abbattimento del bosco di Khimki, l’arresto degli oppositori, le elezioni falsate, la guerra in Ucraina. Solo, con un cartello in mano. «All’inizio rivendicavo il mio diritto a un voto libero. Poi ho iniziato a pensare che, se non puoi rovesciare da subito lo stato delle cose, con un passo alla volta puoi cambiare il mondo». In due anni è stato coinvolto in trenta violazioni amministrative finché nel dicembre 2015 non è diventato il primo e solo russo condannato al carcere per aver violato il famigerato articolo 212.1 del codice penale russo che punisce le ripetute manifestazioni senza autorizzazione. Trentacinque anni, è tornato libero lo scorso febbraio. Vive in due stanze con tappezzeria a fiori e moquette al secondo piano di una krusciovka nel quartiere occidentale Fili Davidkovo di Mosca. Era sposato fino a poco tempo fa con la 25enne Anastasja Zotova. Era stata lei a pubblicare lo scorso novembre la lettera in cui Dadin denunciava le torture subite nella Colonia penale numero 7 di Segezha, in Carelia, un’isola del moderno “arcipelago gulag”. Un matrimonio obbligato, perché in carcere erano ammesse solo visite di parenti, ma che non è durato. «Mi hanno incaprettato, appeso a un soffitto, minacciato di violentarmi. Sono quasi svenuto dal dolore. Sin dal primo giorno hanno fatto di tutto per torturarmi psicologicamente. Cercano di sbriciolare la tua dignità, perché una persona dal carattere spezzato è più manovrabile». Ricordare per Dadin è doloroso. Perde spesso il filo dei pensieri, chiude gli occhi e serra le tempie fra le mani come se volesse riacciuffarlo. Il carcere, dice, lo ha reso più forte. «A volte penso fosse il mio destino. Mi ha fatto capire che è meglio morire da essere umano che vivere da vigliacco. Dopo aver sentito le urla delle persone torturate come me, ho capito che dovevo lottare per loro». E così è tornato in piazza. Ma al corteo di marzo, confessa, non ha partecipato. Non condivide del tutto l’agenda di Navalnyj. Il punto su cui è più in disaccordo è l’annessione della Crimea. «È stato uno scippo disonesto. Se lui non lo ammette, si rivela un populista. Se vuoi combattere il drago, non puoi trasformarti in drago». E il rischio che Navalnyj diventi un altro Putin, secondo Dadin c’è. Come tutti però gli riconosce carisma. «È riuscito a organizzare una mobilitazione senza precedenti. Gliene sono grato». A correre in politica, invece, Ildar non ha pensato: «Ho letto che a cambiare le cose non è mai la maggioranza, ma un’attiva minoranza. In Russia c’è, ma frammentata, una folla di singoli. Io vorrei unirli. Vorrei organizzare un gruppo di onesti. I corrotti al potere se ne andranno solo quando capiranno che non hanno via d’uscita. Avverrà solo con la forza e, dato che io credo nella non violenza, per me l’unica forza possibile è quella della gente che si unisce. Ma devo ammettere – conclude con amarezza – per ora mi sento solo».
L’eroe dell’estrema sinistra

Per circa cinque anni, il fiero eroe dell’estrema sinistra Serghej Udaltsov è stato un prigioniero politico pressoché invisibile. Non ha scritto lettere dal carcere. Non ci sono state mobilitazioni per il suo rilascio. Lui però ci scherza su: «Quattro anni e mezzo sono lunghi, ma in fin dei conti sono stato in un albergo a zero stelle». Classe 1977, fondatore dell’Avanguardia della Gioventù russa con un kalashnikov nell’emblema, poi confluita nel Fronte di sinistra, è stato uno dei leader di piazza Bolotnaja e quello ad aver scontato il prezzo più alto. È tornato un uomo libero solo da pochi giorni. Testa rasata, giubbotto nero, lo stesso da anni, lo stalinista Udaltsov sfugge alle tradizionali iconografie. «Il nero – disse una volta – riflette il mio umore. Sono arrabbiato». E quando cinque anni fa le tv di Stato presentavano i manifestanti come ricconi al soldo dell’Occidente, salì sul palco mostrando la giacca: «La indosso da tre anni. Siete voi dentro al Cremlino a portare cappotti di visone». Un giorno un’asceta in sciopero della fame contro gli arresti ingiustificati, quello dopo un istigatore delle cariche contro la polizia, oggi difende l’annessione della Crimea, ma non vuol dire – assicura durante la prima conferenza stampa dal rilascio – che il carcere lo abbia cambiato: «Ero un duro oppositore di Putin, del governo e dell’élite e lo sono tuttora. Ma la volontà del popolo per noi di sinistra è sacra»». Udaltsov ha la Rivoluzione nel sangue: il bisnonno materno Ivan bolscevico vicino a Lenin, con una strada intitolata a suo nome nella capitale; un prozio e uno zio ambasciatori sovietici. Ora che è uscito dal carcere, la Rivoluzione è pronto a farla. Il sistema attuale, dice, è un disastro, ma l’avvento di populisti neo-liberal di destra sarebbe anche peggio. L’unica alternativa è creare un fronte unico delle forze di sinistra, da Russia Giusta al Partito Comunista fino ai sindacati, in vista delle presidenziali. «Bisogna indire delle primarie e trovare un candidato comune. Un volto nuovo, un giovane. Perché i capi di oggi, pur brave persone, hanno stancato la società come Putin». Serghej non parla di se stesso, tiene a precisare. «I miei precedenti legali m’impediscono di candidarmi». Un’allusione a Navalnyj che fa campagna nonostante sia ineleggibile. Di lui dice: «Non è il mio uomo. Non vogliamo più essere sfruttati. Basta con chi vuole usarci come “carne da cannone”». In Russia, sostiene, c’è molta gente che chiede una “terza forza” alternativa sia al regime che all’opposizione che «civetta con l’Occidente». Le statistiche gli danno ragione. A venticinque anni dal crollo dell’Urss, il comunismo resta il miglior sistema politico possibile per un terzo della popolazione. E la nostalgia per Josif Stalin e l’era sovietica è in aumento. Questo, secondo molti analisti, rende Udaltsov pericoloso. Alcuni credono che l’inflessibile filibustiere possa diventare il “Navalnyj di sinistra”.
Il dilemma di Cremlino

Sono molti nell’opposizione a prendere le distanze da Aleksej Navalnyj. Non solo Dadin e Udaltsov. Gli economisti gli rimproverano la mancanza di esperienza economica. Khodorkovskij ha appoggiato i suoi cortei, ma lo critica pubblicamente. Molti liberali denunciano il suo passato nazionalista. C’è persino chi avanza la teoria cospirazionista che sia in combutta col Cremlino. Altri temono che possa diventare un nuovo Putin. Come Oleg Kashin che, in un dibattuto editoriale sul New York Times, ha scritto: «Gli assomiglia molto. Come il presidente, non può essere definito né di destra né di sinistra. Ha uno stile di leadership autoritario». Il commentatore di Kommersant, 37 anni, non frequenta più volentieri Mosca da quando nel 2010 due sicari gli tesero un agguato sotto casa. Lo colpirono cinquanta volte con un tubo nascosto in un mazzo di fiori lasciandolo in fin di vita solo perché aveva scritto un articolo sul bosco di Khimki. Quando, parlando in Rete, gli chiediamo chi potrebbe guidare l’opposizione, Kashin però non ha dubbi. «Oggi per la prima volta in 17 anni al potere, Putin è di fronte a un oppositore “numero 1” ed è Navalnyj. Non c’è nessun altro. Lo riconosce lo stesso presidente, non portandolo in carcere e lasciando ancora aperto uno spiraglio per la sua partecipazione al voto». Navalnyj, concordano in molti, è finora l’unico oppositore a essere stato in grado di attingere al malcontento popolare. La sua forza, ci dice Kirill Rogov, cofondatore e direttore di Polit. ru, è «essere riuscito a mobilitare strati della popolazione prima apolitici e di esserci riuscito nonostante non abbia accesso ai media di Stato». Non significa che Navalnyj rappresenti un pericolo alle urne: anche dopo che l’euforia patriottica per l’annessione della Crimea è iniziata a svanire, la popolarità di Putin non è mai scesa sotto l’84 per cento e, se si votasse domani, otterrebbe il 63 per cento. Il Cremlino si trova in ogni caso davanti a un dilemma: consentire a Navalnyj di candidarsi legittimerebbe il voto ma rischierebbe di aprire delle crepe; escluderlo dalla corsa potrebbe invece farlo apparire insicuro di sé.
La sfida

Aleksej Navalnyj è come sempre un imputato irrequieto. Interviene, puntualizza, smanetta al cellulare. Non è uno show a favore di telecamere, la giudice stavolta non le ha ammesse. L’imputazione è aver violato i regolamenti sull’organizzazione di assemblee, marce e picchetti. Il pretesto è il “Grande Subbotnik” di un mese fa. Leonid Volkov, capo della campagna pre- elettorale di Navalnyj, e Nikolaj Ljaskin, coordinatore dell’ufficio moscovita, stanno rispondendo delle stesse accuse in aule diverse. È già buio quando Volkov lascia il tribunale del distretto di Simonovskij. Un taxi lo aspetta per portarlo a Prospekt Mira, dove è iniziata l’inaugurazione del nuovo quartier generale dopo il sequestro dei locali sul lungofiume. Un’altra festa rovinata. Poco dopo è la volta di Ljaskin. Navalnyj fa capolino solo a notte fonda. Tutti colpevoli. Pena: multe da 3.500 a 5.700 euro. «Il governo è nervoso perché la nostra è una campagna genuina e non sa come fermarla», commenta Aleksej montando in auto. Poi, affacciato al finestrino: «Cercano di intimidirci alla solita maniera. Prima con i fermi e ora con ammende enormi. Ma noi – promette – continueremo la nostra campagna». La battaglia per i cuori e le menti dei russi è appena iniziata.