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 2017  agosto 18 Venerdì calendario

Helena Attlee: «Come, raccontando il limone, ho raccontato anche l’Italia»

Abbiamo deciso di aprire un dibattito sul foodwriting. Perché ci siamo resi conto che in Italia è considerato ancora giornalismo di serie B, nonostante racconti la vita di tutti noi. Ogni venerdì, dunque, pubblichiamo il contributo di foodwriter italiani e stranieri particolarmente rappresentativi che ci spiegano che cosa significa, per loro, scrivere di cibo. Dopo Michael Pollan, Amanda Hesser, Paolo Marchi, Bee Wilson, Maria Teresa Di Marco, Gigi Padovani, Guido Tommasi, proseguiamo con Helena Attlee.
A. F.
Ci sono due tipi di foodwriter. Il primo ti invita nella fumosa intimità della sua cucina, ti fa sedere e ti insegna a cucinare. Lì puoi sentirti a tuo agio, guardando la ricetta che prende lentamente forma, e pregustando il miraggio di un buon piatto. Il secondo tipo, invece, ti distoglierà dal tepore dei fornelli, proiettandoti in una terra vasta e spesso sconosciuta, dove l’unico nutrimento è quello intellettuale.
Scrivere di cibo in un orizzonte più ampio può essere un modo per guardare presente e passato da un’angolazione inattesa. Prendiamo ad esempio gli agrumi. Arance, limoni e agrumi italiani meno conosciuti come il chinotto, il bergamotto e il cedro sono diventati per me un oggetto di studio. Quando ho intrapreso la ricerca, immaginavo che avrei trascorso ore e ore in cucine domestiche e professionali, mangiando, annotando ricette, e magari mangiando ancora. Avevo anche preventivato visite ai grandi giardini del Lazio e della Toscana, dove avrei studiato antiche piante di agrumi sopravvissute ai secoli nei loro vasi, come bimbi che non hanno mai lasciato la carrozzina. Ho fatto tutte queste prevedibili cose, ma gli agrumi avevano in serbo per me degli incontri molto più inconsueti. Mi hanno accompagnato, più e più volte, in luoghi e avvenimenti che persino un italiano – figurarsi uno straniero come me – difficilmente avrebbe potuto prevedere.
Prendiamo la raccolta del cedro, o più precisamente del cedro liscio di Diamante, un frutto pesante come un forziere e grosso e lucido come un cucciolo ben pasciuto. Di solito, il cedro s’incontra sotto forma di scorza candita nel panforte di Siena, o nel panettone natalizio; ma i frutti raccolti in Calabria in agosto non sono destinati a un uso culinario. Per quel mese dell’anno il prodotto cambia nome in etrog («cedro» in ebraico), in vista del ruolo cruciale che svolgerà durante la festa ebraica di Sukkot. Vi sono almeno dodici varietà di etrog il cui uso è consentito per il Sukkot, ma gli ebrei Lubavitch, un movimento chassidico del giudaismo ortodosso, accettano solo gli etrogim coltivati su un tratto di costa di 40 km. Subito prima dell’inizio della raccolta, rabbini e mercanti di cedri Lubavitch di tutto il mondo si riversano a Lamezia Terme. Per tutto il mese di agosto seguono la raccolta e fanno rifornimento sui campi che circondano le cittadine di Scalea, Diamante e Santa Maria del Cedro. La raccolta è un’operazione carica di tensione, perché solo i frutti perfetti saranno ammessi all’interno della sinagoga. Bombardato di pesticidi e ispezionato per controllare che non presenti variazioni di tonalità della buccia, scorticature, buchi o altri difetti, il cedro liscio porta con sé una simbologia complessa che dimostra fino a che punto il foodwriting può portarci lontano dai fornelli.
La ricca storia degli agrumi italiani mi ha permesso di esplorare la politica, l’economia, l’arte, la medicina, la religione, la poesia e l’agricoltura del Belpaese.
È stata anche un’opportunità per riflettere sulla globalizzazione, sul declino dell’industria agrumaria e sul suo impatto sui paesaggi e le tradizioni plasmate dall’agrumicoltura nel corso dei secoli. Tutto questo oltre all’aspetto culinario. In cucina e fuori, il foodwriter deve ricordare ai suoi lettori che non c’è cibo senza una storia, e non c’è ricetta senza uno sfaccettato retroterra di influenze, ricordi e rimandi.
(Traduzione di Enrico Del Sero)