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 2017  agosto 17 Giovedì calendario

Se la capitale della cronaca nera è più pulp di un film di Tarantino

Cadaveri mutilati, oltraggiati. Depezzati, per usare l’orrendo neologismo poliziesco che ormai è diventato d’uso comune. Storie di nera tra Quentin Tarantino e Patricia Cornwell che dimostrano, ancora una volta, come la realtà sia spesso più spaventosa, più spiazzante della fantasia di scrittori o sceneggiatori pulp. La cronaca romana è sempre stata una fonte inesauribile di omicidi agghiaccianti, in cui l’assassino non si ferma al delitto ma va oltre, infierisce sulla vittima post mortem e quasi sempre non lo fa per nascondere le tracce ma per pura, banale, incontrollabile ferocia. Da Vincenzo Teti, il mostro del Tevere, che nel luglio del 1969 assassinò e fece a pezzi una coppia e la gettò nel fiume, alla straziante odissea di Ida Pischedda, 22 anni, incinta di pochi mesi, uccisa, eviscerata e bruciata in un prato di via della Marcigliana, vicino alla Bufalotta. Siamo nel gennaio del 1977, i giornali, ancora in formato lenzuolo, stampati a piombo e ridondanti di cronaca nera, ci andarono a nozze. Il corpo era straziato. Ne seguì un’odissea giudiziaria interminabile e senza conclusione. Il fidanzato, Adalberto Moriconi e sua madre Domenica Limongi furono arrestati, processati, assolti e, nel 1990, risarciti dallo Stato con un’ottantina di milioni. Giallo senza colpevole, uno dei tanti. Ma l’orrore per antonomasia, nella capitale, ha il viso scarno e segnato di Pietro De Negri, “er Canaro” della Magliana, soprannome, tra l’altro, inventato di sana pianta dai giornalisti perché nessuno lo chiamava così. Una storia atroce che sembra ricalcata dal racconto di Edgar Allan Poe “La botte di Amontillado”: vessato, tormentato, umiliato di continuo dal suo amico e complice di furtarelli Giancarlo Ricci, ex pugile e tipico spaccamontagna di borgata, De Negri organizzò una vendetta spaventosa, classica dimostrazione di come sia azzeccato il detto “temi l’ira del mansueto”. Attirato Ricci nel suo negozio di tosacani, l’uomo lo stordì a randellate, lo incatenò in una gabbia e lo torturò per ore. Eppure gran parte dei dettagli più macabri erano solo il frutto di un delirio onirico: l’autopsia dimostrò che Ricci morì in una quarantina di minuti, lo scempio avvenne dopo la morte e De Negri si inventò moltissimi dettagli. «Gli ho lavato il cervello con lo shampo dei cani», frase con cui iniziò la sua confessione, davanti a un inorridito vicequestore Antonio Del Greco, non trovò mai alcun riscontro. In compenso la storia del Canaro sta per diventare un film e un romanzo. I cadaveri parlano, accusano, raccontano, almeno secondo Kay Scarpetta, l’anatomopatologa più famosa della letteratura mondiale. Eppure non sempre è così. È ancora senza nome il corpo di donna decapitato e fatto a pezzi e trovato l’8 marzo del 2011 in un prato di via Porta Medaglia, non distante dal santuario del Divino Amore. Bianca, caucasica, tra i 20 e i 40 anni, fumatrice. Le notizie sulla vittima si fermano qui. Sul cadavere, l’assassino aveva infierito con precisione chirurgica. La testa non fu mai ritrovata. Niente nome, niente inchiesta, l’assioma che qualsiasi investigatore di primo pelo apprende fin dal corso di formazione. L’Afis (Automated fingerprint identification system) non trovò mai una corrispondenza tra le impronte della donna e lo schedario virtuale segno che la vittima era incensurata. In mancanza di prove, come sempre, le ipotesi presero il volo: dagli immancabili riti satanici fino a un serial killer, nostrano o in trasferta. E gli investigatori, per una volta, tennero il passo con i cronisti in quanto a illazioni. Ogni giorno una pista nuova, un’ipotesi inedita tanto affascinante quanto inconsistente. Conclusione: nulla di fatto. Ed è ancora senza colpevole il caso più recente e, sicuramente, tra i più inquietanti: quello di Gabriele Di Ponto, ultrà biancoceleste, un curriculum di pestaggi, piccoli reati e una fama controversa. «Mai conosciuto uno così cattivo», rabbrividiva il suocero. «Non è vero, non mi faceva mancare nulla e non mi ha mai messo le mani addosso», replicava la ex moglie. Sta di fatto che di Gabriele fu ritrovato solo il moncone di una gamba con un tatuaggio di macabra ironia. «È un buon giorno per morire». Vendetta? Storia passionale? Una questione tra piccoli delinquenti stanziali? Anche in questo caso, neanche una conferma. Poi si seppe che la gamba amputata era stata conservata a lungo in un frigorifero prima di essere gettata nell’Aniene. La realtà batte la fantasia più allucinata. Quasi sempre.