Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  agosto 17 Giovedì calendario

Fausto Pecchia: «Verona, la Serie A è casa tua. Ti salvo e nuoto nel lago»

A due passi dalla densità umana del Ferragosto sul Garda, c’è una collina tranquilla dove l’Hellas Verona si prepara al rientro in Serie A, un anno dopo averla lasciata. Per Fabio Pecchia, 43 anni ancora per una settimana, è un esordio nella categoria migliore da capo allenatore, e contro il Napoli, che a lungo ha fatto parte del suo mondo: «Ma tutte le emozioni sabato, al fischio d’inizio, spariranno».
Il suo mondo ora è qui. Mai fatto il bagno nel lago?
«No».
La classica diffidenza italiana di chi non ci è nato, magari ha conosciuto soltanto il mare?
«L’idea non mi affascina e poi qui non ci vado mai, abito in città. Io sono uomo di terra e mare, nato a Formia ma cresciuto in collina, a Lenola».
La serie A per l’Hellas è come un bagno nel lago?
«Se fosse la prima volta sì, ma questo club si è bagnato spesso, sa cosa ci aspetta».
La squadra è all’altezza della nuova categoria?
«Lo vedremo solo quando saremo dentro: dal punto di vista dello spirito dobbiamo esserlo subito. Sul resto non abbiamo ancora i numeri, soprattutto nel reparto offensivo, però io devo allenare quelli che ho e tirarne fuori il meglio».
Lo spirito si costruisce? Come?
«Esiste qualcosa della stagione scorsa, ma va ricostruito con i nuovi. Si forma con il lavoro del contadino: certosino, con pazienza, costanza, equilibrio. Tutte qualità che dipendono da me, dal club che mi sostiene: ci deve essere un filo diretto e la squadra lo deve percepire».
Come lavora: iPad o taccuino, statistiche o colloqui a quattr’occhi?
«Sono tutti strumenti utili: dati, gps, “occhiometro” cioè valutazioni, sensazioni sul campo. Prendo spunto da tutto, poi tiro le somme».
Lei è il tipo che passa nelle stanze alle 23 per dare l’ultima raccomandazione?
«No, non lavoro così».
A proposito, abolirà i ritiri anche adesso, in A?
«La stagione scorsa ne abbiamo saltati parecchi e anche per il Napoli non lo faremo. Ci troviamo qui sabato mattina».
Ha presente Bruno Labbadia, suo compaesano?
«Certo, grande attaccante in Bundesliga, campione di Germania con Bayern e Kaiserslautern, poi anche allenatore. Anche la sua famiglia era di Lenola, lui ci veniva qualche volta quando ero piccolo, era un personaggio, in un paesino da 4000 anime».
Labbadia è così rigido da allenatore, forse per dimostrare ai tedeschi il carattere italiano, che obbliga i giocatori anche a girare sul verso giusto i calzettoni prima di buttarli nella cesta. La sua intransigenza fin dove si spinge?
«Io sono rigido sul rispetto nello stare insieme. Un ordine che va al di là dei titoli, esigo rispetto per il magazziniere come per il presidente o l’allenatore. Sull’educazione non transigo».
Sono rimaste tracce di Cassanate nell’Hellas?
«È stata una settimana molto intensa per tutti, ricca, vibrante, emozionante. Ma eravamo lontani, non ha lasciato conseguenze. È passata».
Ventura le ha svelato come far funzionare Cerci, visto che il c.t. è stato l’ultimo a riuscirci?
«Qualche indicazione l’ha data. Ma Alessio viene da tre anni difficili, dato oggettivo. L’abbiamo voluto, abbiamo grandissima fiducia in lui, serve pazienza: tre anni di attività parziale incidono. Siamo felici perché sta lavorando con continuità: è uno che può fare la differenza ma ha bisogno di forza e di condizione. E su questo non abbiamo la bacchetta magica».
Un anno fa avete convinto Pazzini a restare in B dicendogli che doveva indossare la canottiera del muratore: chi deve metterla quest’anno?
«Tutti. Valeva anche l’anno scorso, ora sarà più facile. Non siamo i favoriti per il campionato».
Lei parla spesso di calcio propositivo? Cos’è?
«Proporre il gioco, non speculare. Anche se ci sono momenti in cui non puoi farlo, non devi rinnegarlo. Tanti dicevano che non era adatto alla B, però siamo riusciti a mostrare qualcosa di buono a Verona».
Quello del Napoli che calcio è?
«Credo sia la massima espressione del calcio propositivo. È un’auto che viaggia a 300 orari, con velocità e qualità».
Come si ferma?
«Mi viene da pensare: loro sono una Ferrari, noi un prototipo. Ma pretendo dai miei il meglio delle potenzialità».
Quante volte le hanno parlato del 16 settembre 1984, Verona-Napoli 3-1, esordio di Maradona?
«Ne ho sentito parlare (sorride). È giusto rimanga nei cuori dei tifosi, è qualcosa di straordinario. Ora la storia è un’altra, pur se altrettanto appassionante».
Sarà impossibile sabato sentire soltanto cori a favore e non insulti da entrambe le parti?
«La rivalità è alta, quando venivo da giocatore ho visto sempre una cornice di sport, spero sia così anche sabato».
È vero che a Napoli la chiamavano Pepe?
«Pepe Pecchia, sì, ognuno di noi aveva un soprannome, derivato da alcune cronache. Era per il modo di essere pungente e fastidioso in campo».
Lei ha debuttato in A con il Napoli, è stato capitano, si è anche laureato in giurisprudenza, è stato vice con Benitez: è un mondo che le appartiene. Adesso che è dall’altra parte e lo rivede, cosa prova?
«Emozione: cinque anni da giocatore, due da allenatore, sono tanti nelle nostre brevi carriere. Mi hanno dato la possibilità di diventare uomo e giocare a certi livelli. Ho già sostituito Benitez squalificato con il Cesena, ma questa sarà la mia vera prima volta da allenatore in A. Sono molto più lucido, maturo, ho esperienze in grandi club che mi aiuteranno anche adesso».
Se il Verona si salva cosa fa? Va in bici fino a Lenola, km 608?
«No, non sono il tipo. Piuttosto un tuffo nel lago, perché no?».