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 2017  agosto 17 Giovedì calendario

Per il pittore Giovanni Boldini insoddisfatto, Verdi concede una seconda posa

E dire che di quel quadro Giovanni Boldini non era affatto soddisfatto. La seduta di posa si svolse tra la fine di marzo e l’inizio di aprile del 1886 nel suo studio parigino, all’11 di place Pigalle, «presenti – ricorda Ettore Camesasca, biografo dell’artista – anche Giuseppina Strepponi, la cui petulanza infastidiva – sembra – il pittore, e il maestro Muzio, con cui il modello continuava a discutere di faccende professionali».
Il «modello», naturalmente, è Giuseppe Verdi, la sciura Peppina la sua seconda moglie, Muzio l’allievo di una vita, all’epoca celebre direttore d’orchestra (e già ritratto da Boldini quattro anni prima), dopo aver vissuto con Verdi come ragazzo di bottega, infermiere, valletto, tirapiedi. Eppure, il ritratto che al suo autore non piacque mai è quello celeberrimo di Verdi seduto, una mano sulla coscia, l’altra abbandonata sul bracciolo della sedia, la testa bianca voltata leggermente a destra. Quella che fissava gli italiani dalle banconote da mille lire «Verdi II tipo», emesse fra il 1969 e l’81, però con il Maestro che veste una cravatta a farfalla nera sulla camicia bianca invece di avere la palandrana abbottonata fino al collo come nel quadro. Fu lo stesso Boldini a regalarlo poi a Verdi, nel 1893, dopo il trionfo del
Falstaff, e da lì finì poi dov’è tuttora, alla Casa di riposo per musicisti di Milano, tutta costruita a spese di Verdi che la chiamava «la mia opera più bella», lui, questo agrario duro e severo capace però di generosità straordinarie e silenziose.
Quattro ore di posa
Però a Boldini il quadro non piaceva, tanto che chiese un’altra sessione di posa, una ripetizione, diciamo così. Con Verdi, chiedere era facile, ottenere no. Per fortuna, il Maestro si prestò, anche se di malavoglia. E, racconta sempre Camesasca, il 9 aprile tornò nell’atelier di Boldini, di cattivo umore e di fretta. Però, dopo due ore di posa, ammirato del risultato, acconsentì a fermarsi a colazione e poi per altre due ore. Alla fine, il quadro era finito. Il risultato è il Verdi elegantissimo con il cilindro e la sciarpa bianca del frac annodata attorno al collo, un dandy padano dagli occhi d’acciaio, quegli occhi grigioazzurri e penetranti che impressionavano chiunque lo avvicinasse.
A questo secondo ritratto Boldini si affezionò invece moltissimo. Nel suo fondamentale Verdi – Interviste e incontri, Marcello Conati racconta che rifiutò di venderlo a chicchessia, compreso il Principe di Galles, il futuro Edoardo VII. E lo espose in molte occasioni, all’Esposizione universale di Parigi del 1889, alla prima Biennale di Venezia, alla sua «personale» del 1897 a New York. Soltanto nel 1918, per intervento della Principessa Letizia di Savoia, lo regalò alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Abbiati, uno dei biografi del musicista, ritrovò una lettera spiritosa di Boldini a Verdi, datata aprile 1886: «Io pure sono ammalato dai [sic] denti, ho una flussione che mi fa il viso come una luna, guarda un po’ come sono bellino [e qui c’è un’autocaricatura]. Avanti la flussione sono stato a sentire il Cid [di Massenet, all’Opéra], anzi credo che sia stato questo che mi ha fatto venire male ai denti, talmente ho sentito del rumore di tutte le sorta [sic], stonazioni, timpani, campane e grancassa, che mi ha proprio attaccato il sistema nervoso alle gengive».
Evidentemente, Boldini la pensava come Verdi sulla «grande boutique», l’Opéra. Il Maestro, dal canto suo, stava finendo Otello, che avrebbe debuttato l’anno seguente alla Scala. Ma si rifiutava di parlarne, e a tutti diceva di essere a Parigi perché «aveva assolutamente bisogno di conferire con il suo sarto», così raccontò il Figaro. In realtà questo finto provinciale si teneva al corrente di tutto, e per farlo frequentava Parigi, questa capitale del XIX secolo, come da saggio di Benjamin. E poi aveva bisogno di riascoltare il baritono Victor Maurel, che avrebbe tenuto a battesimo Iago e Falstaff.
Sempre burbero, il Grande Vecchio, e diffidente verso il culto che lo circondava negli ultimi anni, quando era già un mito vivente. Ne sapeva qualcosa il suo editore, Giulio Ricordi, che fece i salti mortali per farlo fotografare con l’ultimo librettista, Arrigo Boito, prima della «prima» del Falstaff. La foto è celebre. Boito è a sinistra in un tre pezzi a quadrettini, un bastone da passeggio nella destra, la sigaretta nella sinistra; Verdi a destra, tutto in nero, di tre quarti, la bella testa bianca piegata in avanti, nella sua tipica posa con le mani appoggiate sulle reni che, chissà perché, fa sempre pensare a un agricoltore stanco al termine di una giornata di ispezioni sui poderi amorosamente curati.
In nove biografie su dieci, lo scatto è collocato a Sant’Agata, la casa di campagna di Verdi. Invece un numero speciale dell’Illustrazione italiana del febbraio 1893 racconta tutta la storia di questo straordinario servizio fotografico realizzato l’estate precedente, con Verdi (sempre con le mani sulla schiena) ritratto più volte insieme con Boito, con Giulio Ricordi, con suo figlio Tito e con l’artista Carlo Chessa, che aveva bisogno di una sua fotografia per partecipare a un concorso del ministero dell’Istruzione per un ritratto all’acquaforte del padre della Patria melodrammatica. Le piante che li circondano non sono quelle di Sant’Agata, ma del giardino Perego, uno degli spazi verdi «segreti» di Milano, accanto alla casa di via Borgonuovo dove abitavano i Ricordi.
«Bricconi! Ecco il tranello!»
Verdi fu immortalato a sua insaputa. Dopo pranzo, Giulio Ricordi gli propose di scendere in giardino a prendere il caffè, di cui Verdi era ghiottissimo. E qui il Maestro fu paparazzato di nascosto da due fotografi mimetizzati tra le fronde. Finché se ne accorse: «Bricconi! Ecco il tranello!», esclamò, ma poi si lasciò docilmente ritrarre, e acconsentì perfino a un «posato». Il palco era già pronto, con una sedia davanti a un drappo bianco ben steso. Verdi si fece fotografare di profilo, il cappellone floscio in testa, la solita redingote nera a doppio petto abbottonata alta sulla camicia bianca e il papillon nero, gli occhi un po’ strizzati, il naso deciso, la barba a punta. Guardarlo è ancora un’emozione.
Così, resta solo da dire che con l’acquaforte basata su quello scatto Chessa vinse il suo concorso. E che tanto fecero impressione le fotografie del Maestro, che il Guerin meschino pubblicò subito una caricatura, titolo «Il nuovo atteggiamento della giovane scuola musicale italiana». Si vedono Mascagni, Leoncavallo, Franchetti e Puccini in fila, tutti nella stessa identica posa, le mani sulle reni. La grandezza è anche questa.