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 2017  agosto 17 Giovedì calendario

Tiffany batte Costco 20 milioni a 0

C’è chi rinuncia a combattere la contraffazione e chi non si arrende, pur provando la sensazione di tessere una tela simile a quella di Penelope: per ogni sequestro di merce falsa, per ogni sito chiuso, per ogni produttore multato o perseguito penalmente, si assiste alla nascita di nuovi contraffattori.
Gli strumenti legali a disposizione dei marchi della moda e del lusso esistono, ma non sono di facile applicazione e l’interpretazione di “falso” varia da Paese a Paese. Qualcosa però sta cambiando, specie negli Stati Uniti. Forse c’entra il fatto che non si può più dare la colpa soltanto ai cinesi, ma occorre ammettere che in molti casi si tratta di affare nazionale: aziende o catene americane che copiano marchi americani o, peggio, globali. Si spiega anche così la vittoria di Tiffany su Costco, riportata lunedì in prima pagina dal quotidiano americano della moda e del lusso Wwd. Non tanto per l’entità del risarcimento (19,4 milioni di dollari), peanuts, noccioline,per una catena come Costco, che ha chiuso l’esercizio fiscale 2016 con ricavi per quasi 117 miliardi di dollari. È importante la motivazione: Costco è una sorta di misto tra i modelli Lidl e Metro. I clienti devono avere una tessera (che però tutti, senza alcuna limitazione, possono fare) e i negozi, assai più spartani di quelli delle catene hard discount europee, vendono prodotti di ogni genere, acquistabili in formati gigante o in grandi quantità, quasi da ingrosso.
Tiffany aveva iniziato la battaglia legale contro Costco nel 2013, accusandola di vendere anelli etichettati come Tiffany, ovviamente a prezzi incomparabilmente più bassi di quelli venduti nelle boutique del gioielliera americano. Da qui la difesa iniziale, che suona più o meno così: anche se gli anelli si chiamano Tiffany nessun frequentatore sano di mente di Costco può pensare di comprare l’originale. Il tribunale di New York ha finito col pensarla diversamente: ai 20 milioni imposti a Costco si arriva sommando i profitti della vendita dei “finti Tiffany” (11,1 milioni) al risarcimento danni(8,25 milioni). Qui sta il cambio di giurisprudenza: è un invito alle catene americane a non ingenerare confusione nei consumatori, dando per scontato che conoscano la differenza tra un prodotto low cost e un originale. È la stessa tesi che ha spinto Gucci a continuare la battaglia (si veda Il Sole 24 Ore dell’8 agosto) contro la catena di fast fashion Forever21, che vende capi con le caratteristiche strisce rosso-versi e rosso-blu, tratto distintivo della maison fiorentina fin dalla sua nascita e coperto da copyright negli Usa fin dal 1979.
Battaglia tutta anglosassone quella tra Stella McCartney e lo stilista americano Steve Madden, reo di vendere, a un decimo rispetto all’originale, una borsa troppo simile alla Falabella, best e long seller della designer inglese. Americana e addirittura famigliare la disputa tra Tory Burch e l’ex marito Chris Burch, che dopo il divorzio, nel 2011, lanciò la catena C.Wonder e fu ripetutamente accusato di scopiazzare lo stile dell’ex moglie. Vendere a prezzo (molto) più basso quel tipo di “estetica preppy” non bastò: C.Wonder fallì miseramente dopo appena quattro anni.