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 2017  agosto 14 Lunedì calendario

I bimbi che vogliono essere bimbe. E viceversa. L’esperta: «Il disagio si manifesta già nella prima infanzia sia per i maschi che per le femmine. I primi segnali da cogliere»

«Non è questione di volontà, eliminiamo da questi casi il verbo “volere”, perché potrebbe sembrare che al contrario si possa anche non volere». È molto netta la dottoressa Chiara Baietto: «La disforia di genere è una discordanza interna alla persona e durante l’infanzia il pensiero è: perché mi consideri maschio mentre io mi sento femmina? O viceversa naturalmente». Baietto è neuropsichiatra infantile presso l’Azienda Sanitaria Città della Salute e della scienza di Torino ed è referente dell’ambulatorio specialistico per lo sviluppo atipico dell’identità di genere in età evolutiva. È uno dei nove centri italiani affiliati all’Onig (Osservatorio nazionale sull’identità di genere – onig.it) a occuparsi di minorenni, quello più specializzato sulla disforia di genere in età infantile. Si tratta di un tema molto specialistico, senza grandi riferimenti in Italia e con competenze non ancora diffuse sul territorio. Ma la disforia di genere è una condizione che, secondo la maggior parte degli studi, si manifesta in due o tre bambini su mille, mentre alcune ricerche addirittura alzano la prevalenza al 2-3 per cento. «La disforia di genere nell’infanzia è l’intenso desiderio e anche la convinzione di appartenere al genere opposto a quello biologico», spiega la dottoressa. «La disforia può manifestarsi molto precocemente ed essere evidente a due o tre anni, quando si sviluppa il linguaggio e il bambino inizia a esprimersi senza ancora i condizionamenti dell’ambiente che possono esserci qualche anno dopo. Ecco, quando un bambino di 3 anni che si chiama Mario dice “mi chiamo Maria” e vuole giocare con le bambole, allora probabilmente siamo in una condizione di disforia di genere». Il caso più famoso è quello di Shiloh, la figlia undicenne di Angelina Jolie e Brad Pitt, che, a quanto hanno rivelato i genitori, si fa chiamare John e indossa abiti maschili. Alcuni giorni fa era anche uscita la bufala che avesse iniziato una terapia ormonale per bloccare lo sviluppo durante la pubertà. Queste terapie negli Stati Uniti sono legate allo stadio di sviluppo puberale mentre in Europa esiste un limite di età (12 anni) al di sotto del quale è vietato somministrarle. Molti li chiamano “bambini libellula” anche se, mette in guardia Baietto, «io non uso mai questo termini». Niente classificazioni dunque. «Il bambino può anche non esprimere questa propria percezione perché si può rendere conto che non corrisponda all’aspettativa della famiglia e il bambino si trova così in una situazione di difficoltà, anche perché magari vorrebbe essere come i suoi coetanei». Per questo la disforia è più facilmente individuabile nella prima infanzia. «Crescendo il bambino, anche se non fosse limitato dai genitori, può ridurre i segnali nel proprio comportamento per conformarsi a quanto ritiene socialmente adeguato, sentendosi diverso e sbagliato per non riuscire a farlo», prosegue Baietto. «Ma accade anche che non tutti i bambini che presentano disforia di genere da piccoli la mantengano in età adolescenziale». E in questi casi di «non persistenza» quattro ragazzi su cinque presentano poi un orientamento omosessuale. I segnali della disforia di genere possono essere facilmente individuati: la volontà di farsi chiamare con un nome del genere opposto, la tendenza a usare giochi e abiti tipici del sesso opposto e quella di avere amici del sesso opposto per sentirsi integrati. «Molti bambini provano anche a parlare con i genitori, magari non in maniera diretta, ed è fondamentale che essi colgano questi segnali per iniziare un percorso di supporto». Fondamentale tanto per i bambini quanto per i genitori, che possono contare su diverse forme di affiancamento: dagli incontri di famiglia o di coppia a quelli con altri genitori che si trovano nella stessa situazione. «E questi sembrano essere particolarmente efficaci». È poi importante distinguere la disforia dall’omo- sessualità. «Una persona omosessuale non ha difficoltà a riconoscersi nel proprio sesso e non sente la necessità di cambiare il corpo». Non sono ancora del tutto chiare le cause che stanno alla base della disforia di genere. «Intervengono molti fattori, ormonali, genetici, ambientali e neurobiologici, che agendo su una particolare condizione genomica danno questa condizione», conclude la dottoressa Baietto. «Da un punto di vista neurobiologico inon abbiamo idea di quali siano i fattori che determinano la persistenza o al contrario la regressione di questa condizione. Del resto la stessa identità di genere umana presenta diverse variabili: dal maschio con connotati molto maschili alla femmina con connotati molto femminili a tutto quello che è lo spettro tra i due estremi esiste un mondo di sfumature». riproduzione riservata

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Manila Gorio è una delle più famose transgender italiane ad aver compiuto quella che lei chiama «metamorfosi» da un corpo maschile che non rispecchiava la sua identità. Nata come Antonio Giangregorio a Bari 36 anni fa, Manila oggi ha deciso di fondare l’associazione Transgender Italia per «dare voce a tante storie e tantissimi progetti».
Quando si è accorta che la sua identità apparteneva al genere femminile?
«La disforia di genere è qualcosa di difficile da spiegare. Nel mio caso non ho avuto un passaggio traumatico da uomo a donna: la mia è un’esperienza remota che parte dall’infanzia e passa all’adolescenza. Una metamorfosi spontanea. Non è una cosa che abbia scoperto in età avanzata».
Quindi già da piccola sentiva di essere una bambina?
«Io parlavo di me stessa al femminile sin dalla mia infanzia. Quando ero piccolina giocavo con le bambole. A sei o sette anni avevo comportamenti che molti considererebbero “anomali”. E poi da adolescente avevo sembianze femminili, con i capelli lunghi, perché io mi rispecchiavo in un’immagine femminile. Ma già da quando ero nel passeggino le signore fermavano mia mamma per dirle: “Che bella bambina”. E lei rispondeva a tono».
È stato difficile per lei e per i suoi genitori affrontare questa metamorfosi?
«È stato come scoprire una parte di me che viveva già con me. E pian piano ho acquisito sempre più questa parte femminile. Naturalmente il supporto psicologico è stato fondamentale sin dall’adolescenza ed è servito anche per aiutare i miei genitori in un percorso di comprensione. Anche perché da genitori del Sud avevano bisogno di sostegno: non sarebbe bastato togliermi la bambola dalle mani. E poi anche le mie sorelle mi hanno supportato molto».
Insomma è stata abbastanza fortunata.
«Sono cresciuta in una cupola d’oro, con genitori intelligenti ed emancipati. Ma dipende da che tipo di famiglia c’è alle spalle: in Sicilia o in Campania la maggior parte delle ragazze trans abbandona quelle terre. Mia mamma invece ha portato avanti la lotta per difendere la mia identità e mi ha accompagnata al cambiamento. Ma persino in questo Paese di merda rimasto all’età della pietra oggi qualcosa sta cambiando: recentemente è stata approvata una legge che consente a un transgender non ancora operato di chiamarsi come una donna sui documenti. Anche se chiaramente i pregiudizi restano e le problematiche sociali non scompaiono».
Cosa pensa di chi confonde disforia di genere con omosessualità?
«Sono due mondi paralleli che vengono molte volte paragonati, ma esistono enormi differenze. Gli omosessuali fanno una scelta sul piano sessuale, mentre i transgender si rendono conto di non saper vivere nel corpo nel quale si trovano. La disforia di genere non è solo una scelta: in me è stato riscontrato che già da piccola producessi più ormoni femminili. Io in adolescenza non ero interessata a un approccio sessuale con un maschio: mi occupavo della mia identità e del mio corpo. Il desiderio erotico arriva dopo. Ecco perché quando una transgender va a manifestare per i propri diritti al gay pride io mi incazzo».