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 2017  agosto 14 Lunedì calendario

L’inutile tributo che non ferma la speculazione

Appena dopo il voto britannico favorevole alla Brexit (23 giugno 2016), il Corriere suggerì al governo di ripensare l’adesione italiana alla Tobin Tax, l’imposta sulle transazioni finanziarie. Anche allo scopo di dare sostanza fiscale alle ambizioni di Milano come piazza alternativa a Londra. Trascorso poco più di un anno, le chance milanesi di attrarre società finanziarie, costrette a emigrare dalla capitale britannica per conservare il passaporto europeo, sono minime ma non nulle. Vale la pena di provarci ancora. L’impegno corale e lodevole delle istituzioni e delle parti sociali è oggi concentrato sulla sede dell’Ema, l’Autorità europea del farmaco, con buone possibilità di ottenerne il trasferimento. La proposta di sospendere la Tobin Tax ( Corriere del 24 luglio 2016) suscitò un discreto dibattito. Ma incontrò la resistenza del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Posizione comprensibile, coerente con la storia personale di un economista di sinistra attento agli effetti redistributivi della politica fiscale. Non c’è dubbio che la tassa, nella sua intuizione originaria, avesse una nobile finalità: frenare gli aspetti più speculativi delle attività finanziarie, infliggendo ai capitali una sorta di pedaggio sociale. Una misura che compensasse in qualche modo la straordinaria distorsione realizzata dalla globalizzazione dell’economia: i capitali scelgono dove farsi (o non farsi) tassare, il lavoro no. Gli stati, anche quelli più forti, sono impotenti e le loro casse spesso desolatamente semivuote. L’economista americano e premio Nobel James Tobin (1918-2002) la propose per la prima volta nel 1972. Eravamo all’indomani della fine del sistema monetario di Bretton Woods. La globalizzazione ancora agli albori. E non era immaginabile lo sviluppo impetuoso della finanza negli anni successivi, con i suoi intollerabili eccessi.
Barche al largo L’idea di Tobin ha conservato una sua invidiabile giovinezza. Un irresistibile fascino. Ma più per gli aspetti ideologici che per gli effetti pratici, peraltro discutibili. Quando la tassazione sulle transazioni finanziarie venne adottata in Italia, con la legge 228 del 24 dicembre del 2012, l’allora presidente del Consiglio Mario Monti aveva due scopi. Da un lato anticipare quello che appariva all’epoca un solido orientamento europeo. Dall’altro compensare provvedimenti assai impopolari, come la riforma delle pensioni. Una misura simile alla reintroduzione – operata sempre dal governo tecnico – della tassa sullo stazionamento delle barche che si tradusse in un danno rilevante per il turismo nazionale ( Francia, Croazia, Montenegro, Malta, Tunisia ancora ringraziano) senza vantaggi per l’Erario. I super ricchi – come gli speculatori che emigrano verso altre piazze finanziarie – scelsero altri porti. La tassa di possesso, erede di quella di stazionamento, venne poi abolita nel dicembre del 2015. Anche il gettito della Tobin Tax è stato fortemente sovrastimato. Oggi non supera i 400 milioni. Anzi, a giudizio dell’amministratore delegato di Borsa Italiana Raffaele Jerusalmi, il risultato reale per le casse dello Stato rischia di essere negativo perché è diminuito il giro d’affari degli intermediari italiani e, di conseguenza, l’ammontare delle imposte pagate.
La proposta dell’anno scorso sollevò la reazione negativa anche del mondo cattolico. Leonardo Becchetti su Avvenire (28 luglio 2016) difese la Tobin Tax sostenendo la sua efficacia nei confronti dei «capitali supersonici iper speculativi», con un «costo risibile» per i capitali più pazienti. E si chiedeva come mai la si dovesse togliere, avendola anche il Regno Unito.
Speculazione salva In realtà si tratta, nel caso inglese, di un’imposta di bollo che esiste da sempre, per la quale è prevista una larghissima fascia di esenzioni. Il confronto, poi, va fatto soprattutto con chi sta nell’Eurozona e ha la nostra stessa moneta.
«L’amara realtà – spiega Andrea Vismara, amministratore delegato di Equita – è che la speculazione non è stata affatto colpita perché le operazioni di un day trader nelle ventiquattro ore non sono tassate mentre un investimento di lungo periodo, più utile alla stabilità e alla crescita del Paese, sì. Con un effetto spiazzante per i pochi intermediari italiani rimasti. Perché dare questo vantaggio alle altre piazze finanziarie?». Vismara lamenta anche il fatto che la tassa (inizialmente allo 0,12 oggi allo 0,10 per cento per le aziende con capitalizzazione superiore ai 500 milioni) sia limitata al mercato azionario. «Se si voleva introdurre una vera Tobin Tax non si dovevano fare eccezioni, ma capisco che vi fosse il tema delicato dei titoli di Stato».
«Conservando la Tobin – aggiunge Jerusalmi – è come se dicessimo agli italiani che investire i loro soldi nelle aziende straniere non costa nulla mentre su quelle italiane, al contrario, si paga». L’Italia ha uno dei tassi di risparmio più alti al mondo. Con la disciplina sui Pir (Piani individuali di risparmio) si tenta – con successo pur nel timore di creare una bolla – di dirottare il risparmio privato sulle aziende quotate italiane. La Tobin Tax ha un effetto esattamente contrario.
Europei riluttanti Che cosa è cambiato rispetto a un anno fa? Perché la proposta è ancora attuale? La Brexit, lo ha ammesso lo stesso Padoan, ha ridisegnato il contesto nel quale l’Europa pensava di adottare, con una direttiva, la Tobin Tax. E infatti a Bruxelles si è poi pensato a una cooperazione rafforzata. Un accordo limitato ai Paesi disponibili. Sempre meno. Ma anche questa via appare impervia. Prevale la prudenza se non la riluttanza. I dubbi del ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire sono espliciti. Parigi ha introdotto la Tobin Tax ma con una serie di eccezioni da renderla di fatto innocua. La Germania aveva promesso tante volte di farlo. Ora nel duro negoziato con Londra non sembra il momento opportuno per mettere una tassa sulle transazioni. E Francoforte si candida ad essere la nuova capitale finanziaria d’Europa.
Contraddizioni La constatazione che il carniere del Robin Hood fiscale è assai modesto, e che le frecce colpiscono gli italiani e non gli speculatori internazionali, dovrebbe consigliare la sospensione della Tobin Tax. Come fece la Svezia quando si accorse degli scarsi introiti. Per l’Italia c’è anche un problema di coerenza, oltre che di praticità. Da un lato concediamo benefici fiscali ai manager che si trasferiscono a Milano per rendere appetibile la nostra piazza finanziaria in alternativa a Londra. Dall’altro teniamo in vita una tassa che non riduce la volatilità dei mercati. Non colpisce la speculazione. E si trasforma in una perdita di competitività del Paese proprio nel momento in cui facciamo di tutto – e giustamente – per attrarre capitali e capitalisti da ogni parte del mondo.
«Sono convinto – dice Andrea Tavecchio fondatore di Tavecchio, Caldara &Associati – che un bagno di realismo ci renda più credibili e affidabili. Abbiamo anticipato la Tobin Tax quando sembrava una precisa scelta europea. Ora non lo è più, sospendiamola. Se abbiamo deciso di essere un Paese che fa concorrenza fiscale agli altri – per esempio con l’imposizione sostitutiva sui redditi esteri – facciamolo fino in fondo».
In campagna elettorale è difficile certo. Ma sventolare da soli la b andierina della Tobin T ax non serve a nulla. Anzi.