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 2017  agosto 14 Lunedì calendario

1991, Losing My Religion. REM, la band alternativa che si scambiò i ruoli per parlare d’amore

Adesso che i 60 si avvicinano, lui, Michael Stipe, ormai lo vedi in giro soltanto in momenti topici della vita americana. Barbone bianco da profeta, s’impegna nelle campagne elettorali per le presidenziali, oppure spunta per un omaggio a David Bowie; e non si tira indietro se c’è da cantare con Patti Smith, che accese in lui, ragazzo di Athens, la passione per la creatività.
L’anno scorso ha confidato al New York Times che il mondo della musica gli manca molto: ma erano i 25 anni di Out of Time, con preziosa e documentatissima ristampa. Forse sono solo cose che si dicono, quando ci si trova a parlare di un capolavoro di gioventù. Chissà se Losing My Religion, una delle più celebri e appiccicose canzoni dell’ultima stagione ruggente del rock, gli manca anche nella voce: «Per un tipo come me che non aveva troppe ambizioni, trovarsi tra le mani un successo così grande era il regalo più grosso che potessi ricevere».
Dal 2011, quando hanno annunciato un serissimo scioglimento che non prevede reunion (e c’è da crederci, vista la stoffa di cui erano fatti) i REM e quella canzone mancano a tutti noi, che dobbiamo accontentarci del disco e di YouTube, con il video bollywoodiano di Tarsen Singh che vinse un Grammy.
Quando intorno al 1990 nacque Out of Time, l’album che li lanciò nel mainstream (con la Religion che Michael definì poi «Una classica canzone pop ossessiva, come Every Breath You Take dei Police») i REM erano reduci da un tour massacrante e da un successo che buttalo via: Green ne aveva segnato l’ingresso nel mondo delle major, e se per loro il verde era ecologia, i criticoni pensarono subito al colore dei dollari, per i 10 milioni di bigliettoni verdi incassati nel contratto con la Warner. Ma Stipe e soci avevano dettato clausole ferree, certi di rimanere se stessi, testardi capofila della musica alternativa.
Tornarono subito in sala di registrazione. Stipe aveva 30 anni, e alle spalle una vita orgogliosamente contro le convenzioni comode, da sempre condivisa con i suoi ex compagni di università e ora soci artisti nella ditta, Peter Bucks, Mike Mills e Bill Berry. Non pensavano proprio di riprendere le stesse atmosfere di Green, scorciatoia sempre comoda per molti.
Dopo lunghi conciliaboli e cene passate a confrontarsi, l’idea che viene fuori è di sfidare la prevedibilità nel modo più imprevedibile: in studio, ognuno avrebbe suonato strumenti diversi da quelli usati normalmente. Peter Buck molla la chitarra solista e imbraccia il mandolino, che finirà così per diventare lo strumento simbolo della nuova vita dei REM. 18 milioni di copie vendute da Out of Time li renderanno rockstar. A sua volta, il batterista Billy Berry passa al basso, il bassista Mike Mills si piazza davanti all’organo. E Michael Stipe – il carismatico, inquieto leader che ha scritto della fine del mondo, e delle guerre chimiche che fa? – si mette a parlare d’amore.
Nasce così Losing My Religion. Il segreto è che, per la sua struttura musicale senza ritornello, il brano suona come una specie di droga acustica. Un’ossessione, come diceva Stipe. Ascolti e riascolti senza stancarti, ancora oggi, e vorresti sempre ricominciare da capo, come succedeva ai concerti.
La religione è un trabocchetto, in quel titolo, e del resto Stipe ha confessato che non gli è mai piaciuto che si capisse troppo quel che cantava («La musica è molto più profonda del pensiero razionale»). Losing My Religion significa «Sto perdendo la pazienza», espressione idiomatica del Sud degli States. Stipe ce la deve mettere tutta, il tema non è il suo forte: scrive dunque d’un amore finito, e della delusione che ne segue pensando a una fiducia mal riposta, con un sacco di emozioni contrastanti («Come uno sciocco ferito, perduto, e accecato»).
La guerra e altri guai
Ma il singolo esce ad annunciare l’album a metà febbraio ‘91, quando da un mese è scoppiata la Guerra del Golfo, e in molti l’ascoltano come una metafora anticipatrice di lunghi guai. «È arrivata in un momento in cui la gente iniziava a farsi domande su quanto stava accadendo, che comunque non era affatto il tema del mio testo, e le domande si volgevano sull’impatto che le scelte politiche e personali hanno sulla società. È arrivata nel momento giusto, quando sembrava che il mondo stesse crollando», spiegò poi Stipe.
C’è quell’inizio folgorante con il riff assassino del mandolino di Buck, che suscita un’inquietudine sottile, poi entra Michael con la sua voce dolente e comincia ad argomentare, in un monologo amaro: «La vita è più grande di te / e tu non sei me / Le distanze che devo macinare / Le distanze dai tuoi occhi... Oh no, ho detto troppo / Ho detto tutto...». Forse, sì, ha detto tutto. E sulle sue parole si stende l’ombra ambigua che da sempre accompagna la convenzione ideologica del rock, di dover spaziare in un territorio dove la dimensione personale struscia e si disperde nell’orizzonte dell’impegno politico. «La vita è più grande di te», consentiva Michael Stipe.