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 2017  agosto 14 Lunedì calendario

Perché la crisi della democrazia premia i populismi

Il successo dei soggetti cosiddetti populisti è spesso collegato al rifiuto degli elettori di affrontare la verità, anche quando è certificata dalla scienza. Ci si dedica così a scovare le molteplici bugie che quei soggetti raccontano, o a criticarli perché dubitano del riscaldamento globale e dei vaccini. Ora, non c’è dubbio che la crisi della politica da cui scaturiscono i populismi sia legata a una crisi della conoscenza. Ma quel nesso è ben più complicato (e preoccupante) di quanto non si possa desumere dalla banale lista delle balle di Trump. I populismi sono figli d’un divorzio fra discorsi e realtà che non è affatto opera loro – anche perché è in corso da decenni. E, per un altro verso, sono addirittura alimentati dal desiderio di reagire a quel divorzio.
Il caso di James Damore del quale tanto s’è discusso da ultimo – l’ingegnere informatico licenziato da Google per aver sostenuto che la disparità fra i sessi (il «gender gap») è dovuta, oltre che alla discriminazione, anche a diversità biologiche – mostra chiaramente fino a che punto il rapporto con la realtà sia un problema non soltanto per i populismi, ma anche per la cultura del politicamente corretto che è ai loro antipodi.
Ha ragione Damore nel sostenere che il gender gap ha anche origini biologiche? Non lo so e in questa sede neppure m’interessa. Mi interessa molto di più la reazione di Google. Che può essere ricostruita come segue: 1) il gender gap è un male assoluto; 2) poiché va superato a ogni costo, l’idea che abbia basi biologiche è inaccettabile – se le avesse, infatti, sarebbe almeno in parte insuperabile -; 3) di conseguenza, ne vanno postulate le origini esclusivamente sociali; 4) poiché è di origine sociale, chi insinua il dubbio che esso possa avere radici biologiche lo rafforza; 5) chi insinua quel dubbio va ostacolato a ogni costo.
L’esito finale di questo marchingegno ideologico, la chiusura preventiva della discussione, è ovviamente illiberale. Ma questo è addirittura il problema minore. Toccando la questione del rapporto fra potere, discorsi e realtà, il meccanismo colpisce infatti uno dei presupposti senza dei quali un regime liberale è perfino difficile immaginarlo. Il discorso di Damore era riferito alla realtà, ossia conteneva delle argomentazioni empiriche, vere o false che fossero. La risposta di Google quella realtà l’ha elusa del tutto. La vicepresidente per la diversity Danielle Brown non ha replicato portando argomenti contrari, ma s’è limitata a ribadire la linea aziendale: «Non deflettiamo dalla nostra convinzione che la diversità e l’inclusione siano essenziali per il successo della nostra azienda, e continueremo a lottare e impegnarci per questo». Un atto di fede, insomma. Che l’amministratore delegato di Google Sundar Pichai ha poi scolpito nel marmo con lo scalpello del potere, licenziando Damore.
Il potere, così, ha costruito la realtà: il gender gap è di origine sociale a prescindere da qualsiasi evidenza in senso contrario, punto e basta. E certo, lo so bene che non è né la prima né l’unica volta che questo accade: la realtà è sempre stata costruita (entro certi limiti) dal potere. So pure che il potere ha costruito assai spesso la realtà a detrimento del genere femminile. La democrazia liberale, però, non doveva essere il regime capace di rovesciare il vecchio e vizioso meccanismo per cui il potere costruisce la realtà in quello nuovo e virtuoso per il quale il potere è giudicato in base alla realtà? E se le nostre democrazie il meccanismo invece di rovesciarlo lo riproducono, perché ci meravigliamo allora se chi è scontento della realtà costruitagli dal potere segue i banditori di realtà alternative? Tanto sono tutte artificiali, l’una e le altre.