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 2017  agosto 14 Lunedì calendario

L’inchiesta sul Russiagate si stringe attorno al presidente

Il procuratore speciale Robert Mueller punta direttamente alla Casa Bianca. Lo rivela il «New York Times», scrivendo che l’ex direttore dell’Fbi incaricato di gestire l’inchiesta sul Russiagate vuole interrogare alcuni degli uomini più vicini al presidente Trump, partendo dall’ex capo di gabinetto Reince Priebus. Questo significa che l’indagine sta seguendo attivamente almeno tre fronti: quello della collusione con Mosca durante la campagna presidenziale, quello dell’ostruzione della giustizia, e quello dei soldi.
Priebus era il presidente del Partito repubblicano all’epoca della corsa alla Casa Bianca, e quando Trump aveva iniziato a vincere le primarie lo aveva appoggiato, diventando il punto di contatto tra lui e l’establishment. Donald lo aveva premiato nominandolo capo di gabinetto, nonostante non avesse mai fatto parte del circolo ristretto dei suoi famigliari e consiglieri. In questa posizione, Reince aveva partecipato a tutte le principali decisioni del capo della Casa Bianca, inclusa quella di licenziare James Comey. Priebus, in particolare, aveva incontrato il direttore dell’Fbi l’8 febbraio scorso, una settimana prima del colloquio in cui Trump gli aveva chiesto di fermare l’indagine sul suo ex consigliere per la sicurezza nazionale Flynn. Mueller vuole conoscere i dettagli di queste discussioni, perché probabilmente sospetta che potrebbero configurare il reato di ostruzione della giustizia, se la successiva cacciata di Comey fosse stata decisa per ostacolare o far deragliare l’inchiesta in corso. Il procuratore forse punta anche sul risentimento personale di Priebus, licenziato dal capo della Casa Bianca poche settimane fa, perché non lo aveva mai considerato abbastanza leale ed efficiente. Ora quindi l’ex capo di gabinetto potrebbe avere le motivazioni per rivelare quanto conosce, dalla campagna elettorale ai primi mesi della nuova amministrazione.
L’altra pista che Mueller sta seguendo è quella dei soldi, che al momento si concentra soprattutto sull’ex manager di Trump, Paul Manafort. Nel suo caso i sospetti sono legati ai rapporti di lavoro che aveva avuto con i gruppi politici ucraini legati alla Russia, da cui aveva ricevuto circa 17 milioni di dollari che potrebbero essere denaro riciclato. La stessa accusa potrebbe riguardare, su scala molto più ampia, la stessa compagnia del capo della Casa Bianca. Il procuratore speciale ha fatto perquisire la casa di Manafort in Virginia, alla ricerca di documenti fiscali e bancari. Se l’ex manager verrà accusato di un reato, come ad esempio aver nascosto conti correnti posseduti all’estero, Mueller potrebbe spingerlo a collaborare in cambio di clemenza. Ma prima ancora di una eventuale incriminazione, Manafort ha già seri problemi per fare fronte ai costi della propria difesa. Gli avvocati di Washington a cui si è rivolto sono molto costosi, e infatti di recente li ha cambiati, forse anche perché doveva ridurre le spese. Messo con le spalle al muro, sul piano economico e giudiziario, l’ex manager potrebbe decidere di collaborare. Secondo alcune fonti, infatti, sarebbe stato proprio lui a rivelare agli inquirenti l’incontro che il figlio di Trump, Don junior, aveva organizzato a New York il 9 giugno del 2016, per parlare con una delegazione russa che offriva documenti compromettenti su Hillary Clinton. Questo filone dunque unisce la pista dei soldi a quella della collusione con il Cremlino, e potrebbe minacciare direttamente Trump, che ora starebbe considerando di licenziare anche il consigliere Steve Bannon, perché lo sospetta di essere uno dei «leakers» che stanno passando ai media i documenti imbarazzanti sulla sua amministrazione.