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 2017  agosto 14 Lunedì calendario

Scrivo ma non firmo. Il successo di Sarahah l’app dell’anonimato

I selfisti anonimi del Gabbani di Occidentali’s Karma sono già stati superati a sinistra dall’ultimo fenomeno tecnologico dell’estate. È un’app e si chiama Sarahah, che in arabo significa “onestà”, e proprio dell’anonimato fa la sua cifra. Solo che qui non ci sono fotografie ma messaggi testuali, in cui si può scrivere di tutto, e soprattutto quello che mai si direbbe con la propria firma sotto. Per inviarli è necessario che l’indirizzo del destinatario sia noto, ovvero che questa persona ce lo abbia comunicato o condiviso sui social. Quando si conosce il nome della casella di arrivo, si può scrivere quello che si vuole senza rivelare la propria identità. Non una novità, ma un successo da subito: pubblicata lo scorso febbraio, ha già 15 mlioni di utenti e 300 milioni di messaggi. È scaricatissima sugli smartphone ma si può usare anche dal web, ma a gestire questo traffico enorme c’è uno staff quanto meno sottodimensionato: solo tre persone. Sarahah è diventata una vera hit, finendo ai primi posti nelle classifiche delle app scaricate, tra colossi come Instagram, WhatsApp, Youtube e Facebook. Facile immaginare milioni di ragazzi che la installano attratti dall’anonimato. Ma in questo modo anche esposti al rischio cyberbullismo e di “hate speech”, l’odio digitale, il veleno verbale che scorre nei social network. Perché il meccanismo di Sarahah non è distante da quello di Ask.fm, il sito di messaggistica anonima infestato dai cyberbulli, nel 2014 al centro della cronaca anche in Italia per episodi di violenza, culminati nei suicidi di due ragazze. App simili non mancano, come Whisper o Yik Yak, tutte meteore presto finite nell’oblio digitale. Sarahah è solo l’ultima arrivata e nasce in realtà come strumento di comunicazione in ambito professionale. L’ha creata un saudita, Zain al-Abidin Tawfiq, analista petrolifero con una preoccupazione: la qualità della comunicazione nei posti di lavoro, che risentirebbe delle differenze di status. L’idea originale di Sarahah era di togliere filtri e impedimenti tra dipendenti e dirigenti, in modo che i primi potessero dire quello che effetti-vamente pensano ai propri superiori, protetti dall’anonimato. Idee, opinioni, proposte che magari associate a un nome non avrebbero mai trovato ascolto, ma che un messaggio senza mittente avrebbe potuto far arrivare al giusto destinatario. E se l’idea non è buona poco male: nessuno ci ha messo la faccia. «Ma nell’anonimato una persona è da sola», spiega la psicologa Anna Oliverio Ferraris. «Su un’app del genere è facile farsi prendere la mano, non c’è un controllo sociale che impedisce alla persona di oltrepassare dei limiti». Ma essere senza nome può anche essere d’aiuto, come nelle intenzioni dichiarate dell’autore di Sarahah? «Sì» risponde Ferraris, «ad esempio quando ci occupiamo di educazione sessuale nelle scuole, l’anonimato protegge dall’imbarazzo chi fa le domande. In questo senso funziona benissimo». Ovviamente, però, un utilizzo sbagliato e criminale dell’app può essere dietro l’angolo. Non a caso quando si spedisce un messaggio attraverso Sarahah, l’app si premura di invitarci a scrivere “qualcosa di costruttivo”. Sarahah non è un social network, non c’è infatti nessuna possibilità di interazione tra utenti. Una volta ricevuto un messaggio lo si può condividere in rete. Se è offensivo, può essere segnalato e in questo caso si può decidere se bloccare il mittente, di cui comunque non verrà svelata l’identità. Un meccanismo di prevenzione elementare, al momento infatti non è chiaro se chi gestisce la piattaforma si preoccupi di interdire l’accesso a chi viene segnalato più volte. Se il messaggio ci piace si può mettere un cuoricino, ma rimarrà visibile solo a noi. Oppure si può semplicemente buttare tutto e dimenticarsi di Sarahah, anonimi e delatori.