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 2017  agosto 14 Lunedì calendario

India. Quel sogno democratico minato dal populismo e in ritardo con la Storia

I1 4 agosto 1947. Una data che merita di essere ricordata: quella della dichiarazione di indipendenza dell’India. Un evento dalla enorme portata non solo per le dimensioni del Paese e la sua ricchezza in termini di storia e cultura, ma anche perché esso segnò il potente avvio di quel processo di decolonizzazione che nel giro di meno di vent’anni cambiò gli equilibri mondiali mettendo fine al dogma, fino ad allora solo marginalmente sfidato, del diritto dell’uomo bianco a comandare. È certamente legittimo che gli indiani provino orgoglio per quell’evento che ha dato avvio a un processo di trasformazione che permette ora all’India di nutrire l’ambizione di essere, sia come peso economico che come ruolo geopolitico, una grande potenza. Eppure in questi giorni in India, e non solo in India, questo settantesimo anniversario dell’indipendenza indiana non offre soltanto l’occasione di celebrare, ma anche di riflettere sulle contraddizioni e i limiti di quello straordinario percorso storico. Il primo terreno di riflessione è quello che si riferisce alla coincidenza dell’indipendenza con la “Partition”, un termine che, più che come separazione, va inteso nel senso di un’atroce amputazione, per di più effettuata senza anestesia. Se qualcuno dovesse ancora essere convinto che per risolvere o prevenire i conflitti sia una buona idea separare, farebbe bene a ripercorrere la storia di quei giorni, quella della nascita di due nazioni: India e Pakistan. Una storia di milioni di morti, di violenze inaudite, del biblico esodo incrociato di milioni di poveri esseri privati di tutto costretti a cercare la salvezza abbandonando le città e i campi dove i loro padri avevano da sempre vissuto. Nel momento in cui si registrava il successo del disegno dell’indipendenza indiana si doveva anche prendere atto di un suo tragico fallimento. I padri dell’indipendenza, infatti, non volevano soltanto liberarsi dal colonialismo britannico ma avevano una precisa “idea dell’India”. Asse portante di questo grande progetto politico, ma sarebbe meglio definirlo etico- politico, era il mantenimento non solo della coesistenza, ma della convergenza, fra indù e musulmani – una componente essenziale della visione del Mahatma Gandhi. Fu proprio per questa sua “colpa” che un induista radicale lo assassinò nel gennaio 1948. Impossibile, quindi, ricordare l’indipendenza senza ricordare nello stesso tempo quella enorme tragedia umana e politica. Non solo perché non sembra possibile dimenticare qualcosa che è ancora molto forte nei ricordi di tante famiglie sia indiane che pachistane, ma perché, come ha scritto in questi giorni un’intellettuale indiana delle più giovani generazioni, Ananya Vajpayi, «la maggioranza dei conflitti aperti nel subcontinente indiano è il prodotto diretto o indiretto della vicenda incompiuta della Partition». Sospettosi di un predominio della maggioranza indù, Muhammad Ali Jinnah e altri dirigenti della comunità musulmana spinsero per la creazione di uno stato basato sulla religione, uno stato islamico che ancora oggi stenta, come dimostra il ricorrente intervento dei militari nella vita politica del Paese, a diventare un Paese retto dalla costituzione e dalle leggi, mentre diventa sempre più difficile – proprio per la debolezza delle istituzioni democratiche – distinguere l’identità islamica da un’identità islamista. L’India non ha certo la velleità di ricostituire l’antica unità dei tempi coloniali, ma l’obiettivo squilibrio di forze fra i due Paesi alimenta nel Pakistan una vera e propria ossessione per la sicurezza, che spiega anche lo spregiudicato sostegno ai talibani in un Afghanistan che Islamabad ritiene di dovere controllare per disporre di una “profondità strategica” contro l’India. Senza parlare del Kashmir, una regione a maggioranza musulmana in cui l’India, ritenendolo un fronte essenziale di contrasto al Pakistan, è incapace di trovare vie alternative (che dovrebbero essere basate sullo sviluppo economico, l’autonomia e il negoziato diplomatico) a una brutale repressione. Il tutto sullo sfondo degli arsenali nucleari di cui i due Paesi si sono dotati. Ma è in relazione alla situazione politica interna indiana che le considerazioni che traggono spunto da quella gloriosa data del 1947 si fanno più amare, più preoccupanti. I Paesi non sono soltanto territori delimitati retti da un potere politico sovrano, ma sono anche progetti di futuro, visioni di un destino comune. Quell’«appuntamento con la storia» di cui parlò Jawaharlal Nehru nel profondo ed emotivo discorso in cui annunciò l’indipendenza al Paese e al mondo aveva due componenti essenziali, qualificanti: un’unità che solo poteva risultare sostenibile nel rispetto delle diversità che caratterizzavano uno smisurato e popoloso Paese e un sistema politico che non privilegiasse una particolare identità religiosa, e nemmeno imponesse una sola lingua (l’India ha 23 lingue riconosciute come ufficiali). Oggi in India l’ideologia dell’Hindutva, quella secondo cui il Paese è e deve essere indù piuttosto che indiano, si è insediata al vertice con un primo ministro, Narendra Modi, che fin dagli anni dell’adolescenza è stato militante del movimento Rss (Organizzazione Patriottica Nazionale) – un’organizzazione induista integralista con aspetti paramilitari di cui, è impossibile dimenticarlo, l’assassino di Gandhi era stato membro. L’India rimane una democrazia, ma stanno aumentando in modo molto preoccupante i segnali di una chiusura autoritaria che si manifesta nella lotta per il monopolio induista della cultura, in particolare con la revisione “ortodossa” dei libri di storia, con la crescente pretesa di usare l’hindi come lingua nazionale e con l’imposizione (per legge quando non da parte di squadracce violente di attivisti) di proibizioni quali quella del consumo della carne bovina. L’unico elemento che ci permette di non abbandonarci a visioni cupe del futuro di quel grande Paese che è l’India è il fatto che sembra difficile immaginare che quella straordinaria diversità che caratterizza la sua realtà umana e culturale e la vitalità della sua società civile e dei suoi ambienti intellettuali possano essere appiattiti e annientati da quel populismo autoritario che purtroppo accomuna ormai Paesi estremamente diversi. Possiamo ancora sperare che l’India compia le promesse di quel 14 agosto 1947 e mantenga il suo appuntamento con la storia. Ma non vi è dubbio che la lotta sarà dura.