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 2017  agosto 14 Lunedì calendario

India. I Figli della Mezzanotte

I Figli della Mezzanotte compiono settant’anni. Non importa se, già un decennio dopo essere venuti al mondo, dei mille e un bambino raccontati da Salman Rushdie 420 erano morti. Ci sono ancora tutti, perché quella notte fu splendida e tragica ma anche magica: i bambini nacquero con doti miracolose e continuano a reincarnarsi «per mille e una mezzanotte», «signori e vittime dei propri tempi». Come l’India, che venne al mondo nello stesso istante. Era una sera d’estate calda, quella tra il 14 e 15 agosto 1947: allo scoccare delle 24, a Delhi nasceva una Nazione e in tutto il Paese, nell’ora successiva, vedevano la luce i bambini di Rushdie, mille e uno come le possibilità di grandezza e di miseria che si aprivano all’India. A Londra erano le otto e trenta della sera e finiva il più grande impero della storia. Una delle notti più gloriose e spaventose del Novecento.
Nei momenti precedenti al rintocco fatale, Jawaharlal Nehru si alzò davanti ai duemila politici e principi indiani dell’Assemblea costituente riuniti per l’occasione. Pronunciò uno dei discorsi più straordinari del secolo. «Molti anni fa – disse – stabilimmo un appuntamento con il destino. Ora il tempo è venuto di tenere fede al nostro impegno… Allo scoccare della mezzanotte, mentre il mondo dorme, l’India si sveglierà alla vita e alla libertà». Le lancette dell’orologio si sovrapposero e Nehru, come stabilito dagli accordi delle settimane precedenti, divenne primo ministro di una nuova Nazione. Nel frattempo, nel palazzo del viceré, il conte Mountbatten of Burma e la moglie Edwina, massimi rappresentanti dell’Impero britannico che rinunciava al gioiello più prezioso, guardavano l’ultimo film di Bob Hope, My Favorite Brunette, mentre la servitù riponeva nei bauli i simboli imperiali. Tutto molto understated, in quel momento, come se non si trattasse di una svolta della storia. Molto britannico, come Mountbatten voleva, come desiderava gran parte dei politici di Londra, Winston Churchill escluso, e come lo stesso Nehru aveva imparato ad apprezzare. Molto altro, però, stava accadendo quella notte. E meno rilassato.
Nei mesi precedenti, la Gran Bretagna e le diverse componenti indiane avevano concordato i termini dell’indipendenza, l’avevano anticipata di dieci mesi rispetto al previsto nonostante i dubbi di Londra e soprattutto si erano accordate per la divisione del subcontinente tra l’India a maggioranza indù e il Pakistan, a maggioranza musulmana, diviso in una parte occidentale (quella attuale) e una orientale (diventata Bangladesh nel 1971). Poche ore prima della Mezzanotte, Nehru seppe che una rivolta sanguinosa tra musulmani e sikh era scoppiata a Lahore, in Pakistan, città nella quale aveva vissuto a lungo. Era l’inizio delle violenze etniche e religiose che avrebbero accompagnato per settimane la Partition, la divisione del subcontinente. Violenze crudeli, omicidi di massa, villaggi dati alle fiamme, 15 milioni di profughi, un milione di morti. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto, però, Delhi era in festa: bandiere, canti, cortei, fuochi d’artificio. Alle celebrazioni mancavano solo due dei protagonisti della lotta per l’indipendenza. Mohammad Ali Jinnah, l’elegante leader della Lega Musulmana, che era ormai emigrato in Pakistan. E Mohandas Gandhi, il Mahatma, che in quelle ore dormiva profondamente in uno slum di Calcutta: aveva dedicato gran parte della vita alla lotta per l’autodeterminazione ma ora non voleva avere niente a che fare con la nuova India, la lasciava ai politici.
Mancavano due giganti ma il grande passo quella notte era compiuto: poco dopo essere diventato primo ministro, Nehru si recò a rendere omaggio all’ormai ex viceré Mountbatten, accompagnato dal leader dell’Assemblea costituente Rajendra Prasad. Nehru, 56 anni, bramino del Kashmir, era uomo di fascino non comune: pelle chiara, occhi neri, sorriso pronto, era un combattente che raccoglieva in sé l’intera storia dell’India, compresa la sofisticatezza e la sicurezza di sé che era il carattere dell’Impero britannico. Mountbatten non era da meno: nato principe Louis of Battenberg, imparentato con la corona (cugino di secondo grado della futura regina Elisabetta, zio del principe Filippo di Edimburgo), Ammiraglio della Flotta, viceré dell’India a 47 anni, era da sempre certo di essere predestinato a fare la storia. Sostenuto dalla moglie, Edwina, 46 anni, nobile, una delle donne più facoltose d’Europa, che nei mesi successivi si prodigò in lavori sociali durante le rivolte della Partition. E che nei mesi precedenti aveva stabilito una relazione con Nehru, intensa, forse d’amore, che durerà anni, anche nella lontananza, tra i pettegolezzi ma con il consenso silenzioso o l’indifferenza britannica del marito.
Quella notte, Nehru e Prasad chiesero a Mountbatten di diventare governatore generale dell’India indipendente, di accompagnare i primi passi della nuova Nazione, dei Figli della Mezzanotte. Mountbatten graziosamente accettò, riempì i bicchieri di porto e brindò all’India. «A re Giorgio VI», rispose Nehru. L’impero finiva – non sconfitto da un nemico o da una rivoluzione armata ma perché il mondo era cambiato – con cortesia e rispetto, con spirito sportivo, come una partita di cricket. Fuori, nel subcontinente, erano già iniziate le pulizie etniche e le guerre di religione. L’India nasceva tra gesti da gentlemen e rivolte sanguinose: democrazia e violenze senza limiti. Così, in questa tensione, crescerà per decenni. Ancora oggi segnata da quell’incredibile notte, 70 anni fa, la mezzanotte dei Nehru, dei Mountbatten e dei mille e un bambino: una Nazione e un popolo, dice Rushdie, «signori e vittime dei propri tempi».
@danilotaino