Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  agosto 13 Domenica calendario

Elvis: è morto per infarto (o overdose) il 16 agosto 1977, ma Presley non è mai stato così vivo e attuale

Elvis Presley avrebbe votato per Donald Trump? La domanda può sembrare oziosa, ma dalla risposta dipende forse l’ultima possibile resurrezione del King of rock’n’roll. Presley morì 40 anni fa nella sua casa di Graceland, ufficialmente per un attacco di cuore, però i suoi fan più appassionati restano convinti che sia ancora vivo da qualche parte nel mondo. Senza voler scuotere questa certezza, è interessante chiedersi quanto di lui sia rimasto davvero vivo, rilevante e attuale oggi.
Tanto per cominciare, era nato in Mississippi e cresciuto in Tennessee, cioè il profondo Sud americano dove ormai alle elezioni presidenziali i democratici potrebbero anche fare a meno di presentare il candidato. Apparteneva a una famiglia povera della classe bianca lavoratrice, ossia quella maggioranza silenziosa che ha consegnato la Casa Bianca prima a Nixon, poi a Reagan, e infine a Trump. Era religioso, e nonostante lo scandalo generato dai suoi temerari movimenti d’anca, non ha mai rinnegato la propria fede. Nel 1958, a 23 anni, si era arruolato nell’esercito, salendo fino al grado di sergente prima di congedarsi nel 1960.
All’opposto di Ali
L’escalation più sanguinosa del Vietnam era ancora lontana, ma la sua scelta stride chiaramente con quella fatta sei anni dopo da Muhammad Ali, eroe degli obiettori di coscienza e della controcultura. Anzi, nel 1970 Elvis era andato alla Casa Bianca per incontrare Richard Nixon, offrendosi come collaboratore volontario nella guerra contro la degenerazione dei valori fondanti americani, complottata dai comunisti. Raccontano che davanti a tanto zelo, persino il presidente del Watergate sia rimasto un po’ interdetto.
Amava nutrirsi male, il suo junk food preferito nell’età matura erano i panini fritti al burro di arachidi e banane. Questa dieta lo aveva fatto visibilmente ingrassare, ma il vero vizio che aveva contratto, e che probabilmente lo ha ucciso, era l’amore per gli oppiacei. Come la classe lavoratrice bianca di oggi, sterminata da un’epidemia di overdose che lo stesso Trump ha deciso di dichiarare emergenza nazionale. Si era sposato, aveva avuto una figlia, ma poi aveva divorziato, dedicandosi alle avventure con ragazze più giovani. E in fondo anche ciò ha un senso, perché non ci sarebbe redenzione senza peccato.
Se uno va ad analizzare tutti questi tratti della vita di Elvis, è impossibile mancare le coincidenze con quelli della crisi dell’uomo bianco americano contemporaneo. Come ha fatto Eugene Jarecki nel documentario Promised Land, che rilegge l’epopea del King proprio attraverso le lenti degli Stati Uniti di Trump. Scrivendone su Variety, Owen Gleiberman ha decretato che gli Usa sono ormai entrati nel «Fat Elvis Period», cioè la fase cicciona e tossica di Presley, in cui «galleggiava sulla propria leggenda e corteggiava l’autodistruzione».
Elvis dunque era stato l’icona dell’America che gli elettori di Trump, minacciati nel profondo della loro identità dal multiculturalismo e dal relativismo morale, vorrebbero disperatamente resuscitare rendendola di nuovo grande. Un concetto che tradotto dal loro linguaggio in quello dei liberal, significa farla tornare a essere bianca, un po’ razzista, moralista, bigotta, anticomunista e politicamente scorretta.
Liquidare così il King sarebbe ingiusto, perché vorrebbe dire dimenticare la sua anima ribelle. Quella che aveva spinto Leonard Bernstein a confidare a Richard Clurman di Time che secondo lui Presley era stato la più grande forza culturale del ventesimo secolo. «Senza di lui non ci sarebbero stati gli Anni Sessanta», intendendo con questo la rivoluzione dei costumi che aveva cambiato faccia all’America. Tanto che lo stesso Bill Clinton, insospettabile campione delle cause liberal, si è sempre considerato un appassionato seguace di Elvis, fra quelli che sognano sempre di scoprire che è stato tutto uno scherzo, e il King sta ancora nel suo bagno al secondo piano di Graceland.
Dunque non possiamo dire con certezza se Presley avrebbe votato per Trump, ma è ragionevole supporre che molti dei suoi fan di oggi lo abbiano fatto. E questo lo aiuta a risorgere ancora, anche se fosse per l’ultima, disperata volta.

Paolo Mastrolilli
***
Il messaggio è chiaro fin da subito: comprare, comprare, comprare. La fila per entrare non è davanti al cancello, ma dall’altra parte della strada, davanti a uno dei negozi di souvenir.
Quando poi arriva la guida, in mano ti ritrovi un iPad con le voci dell’attore John Stramos e di Priscilla Presley: è acquistabile anche questo. Finalmente sali sua una specie di trenino, la cui unica funzione è di portarti dall’altra parte della strada. Solo e solo allora sei in presenza dalla porta di ingresso di Graceland.
A metà tra il museo e il parco giochi, la casa in cui Elvis ha trascorso gli ultimi 20 anni della sua breve vita è diventata, in questi 40 anni, una delle più grandi attrazioni turistiche made in Usa, visitata ogni anno da 60 mila appassionati. Quest’anno forse anche di più grazie agli ultimi ampliamenti tra cui l’hotel The Guest House at Graceland, a pochi passi dal cancello e con l’esterno in stile coloniale. Cinque ettari di terra, seimila metri quadri, 23 stanze.
Oltre che per le dimensioni, Graceland era stata da scelta da Elvis anche per la vicinanza con tutto quello che era il suo mondo, a Memphis: dieci chilometri dall’appartamento popolare dove aveva vissuto da ragazzo, pochi minuti di macchina dal Sun Records, lo studio dove nel 1954 aveva inciso il primo disco.
Vicino alle origini
Sono distanze che dicono qualcosa dell’uomo prima che dell’artista: puoi diventare famoso quanto vuoi, ma non puoi – e forse non vuoi – scappare dalle tue origini. È anche quello che dicono gli interni della casa. Il bianco immacolato del soggiorno di chi aspetta ospiti che mai arriveranno; i televisori in ogni stanza, che fanno piccola borghesia arricchita; il cattivo gusto e la cafonaggine della Jungle Room, una stanza che vuole sembrare un bar sulla spiaggia di Bali con tanto di finte cascate, moquette verde, scimmie bianche di porcellana, vegetazione rampicante rigorosamente di plastica; la stanza dei trofei, con i dischi d’oro in bella mostra; il negozio di souvenir dove con la faccia di Elvis si può comprare di tutto, dagli accendine alle presine da cucina fino alle mentine passando per calze, candele, cravatte, orologi e kit da ricamo. Un’opulenza di oggetti che riesce comunque a raccontare il vero cammino di Elvis, un ragazzo di provincia del Mississippi che a un certo punto si è fatto Dio. Abitazione più visitata degli Stati Uniti dopo la Casa Bianca, Graceland nonostante tutto mantiene le promesse: sbirciando nelle varie stanze il ricordo di chi ci ha vissuto diventa qualcosa di tangibile. Così come la sua parabola discendente. Su uno dei molti televisori si vede l’Elvis della metà degli Anni 50, nel pieno della sua giovinezza e virilità. In quello della stanza successiva c’è invece l’Elvis degli Anni 70, gonfio di alcool e psicofarmaci, sudato dentro la tuta bianca.
Presenti ogni agosto, quest’anno le celebrazioni per i 40 anni della morte sono ancora più ricche e prevedono dibattiti, un’asta con i suoi oggetti personali, uno svariato numero di concerti tributo (il più interessante quello del 16, con un’orchestra sinfonica a suonare i brani più famosi davanti a uno schermo con le immagini di Elvis), incontri con parenti e amici (la moglie Priscilla, ma anche Jerry Schilling, ex manager dei Beach Boys, il cantante Bill Medley e Bill Morris, ex sindaco di Memphis: lui le a moglie Ann erano grandi amici dei Presley).
La sera prima, il 15, è invece prevista una fiaccolata con i fan in processione a posare una candela davanti all’ingresso della villa. Sarà il momento più commovente, quello che viene subito prima la corsa all’acquisto del gadget più assurdo. Il ricordo di Elvis, nel bene e nel male, passa anche dal negozio di souvenir.
Simona Siri