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 2017  agosto 13 Domenica calendario

Uno scrittore novarese racconta la Sacra di San Michele: «La vera storia dell’eremita che ha ispirato Umberto Eco»

Due bolle luminose, come angeli custodi, vegliano sull’orizzonte di Torino e del Piemonte: la basilica di Superga a Est e la Sacra di San Michele a Ovest, all’imbocco della Valle di Susa. La Sacra, o Abbazia di San Michele (i termini non sono sinonimi, agli uomini di chiesa piace di più «sacra», agli studiosi «abbazia», secondo la tradizione benedettina), è simbolo della Regione Piemonte, monumento che rende i balzi del monte Pirchiriano quasi una montagna sacra, simbolica, un po’ come il monte Fuji di Hokusai o la montagna di Sainte-Victoire di Cézanne.
Le grandi ali di San Michele Arcangelo (la statua venne eretta nel 2005) si aprono lungo una linea che per oltre 2000 chilometri, dal santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo, in Puglia – dove su un promontorio del Gargano nel V secolo sorse il più antico e famoso luogo di culto micaelico in Occidente – conduce a Mont Saint-Michel, in Francia; e vigilano su una storia antichissima, che vide passare lungo la strada di Francia papi, eserciti, vescovi e pellegrini. Non stupisce che a Umberto Eco questa enorme ricchezza artistica, spirituale e storica (all’interno della Chiesa principale della Sacra, del XII secolo, sono sepolti membri della famiglia reale di Casa Savoia) abbia ispirato «Il nome della Rosa» e a molti scrittori romanzi e racconti, come quello di Alessandro Barbaglia: «Qui a ogni passo hai a che fare con le tue radici» dice lo scrittore che lo leggerà oggi a Caprie (Torino), al festival Borgate dal vivo. E scherza su Facebook: «La montagna è il lato secco del mare. E allora oggi farò un po’ di bracciate alpine».
Lo Scalone dei morti, il Portale dello Zodiaco, il trittico di Defendente Ferrari, gli affreschi, le antiche foresterie e gli archi rampanti, il panorama: tutto quassù è di una bellezza vertiginosa, denso di spiritualità, custodito in origine dai monaci benedettini e poi, dopo quasi due secoli di abbandono, dai padri rosminiani, oggi affiancati dai volontari.
Lo sanno bene viaggiatori, turisti, sportivi e camminatori, che forse non ne conoscono l’origine: tutto cominciò sul finire del X secolo, quando San Giovanni Vincenzo, discepolo di San Romualdo, iniziò tra questi boschi la vita eremitica. Sul monte Caprasio esisteva già una comunità di preghiera. Alle soglie dell’Anno Mille nell’eremo di Giovanni Vincenzo irruppe un potente in cerca di riscatto spirituale, a causa del suo discutibile passato: il conte Ugo (Ugone) di Montboissier, ricco signore dell’Alvernia che recatosi a Roma per chiedere indulgenza al Papa si era sentito imporre, a titolo di penitenza, di scegliere fra un esilio di 7 anni o l’impresa di costruire un’abbazia. Indovinate cosa scelse.
Iniziò dunque la costruzione del monastero, affidato poi a cinque monaci benedettini. Ugo di Montboissier continuò sistematicamente a reclutare abati e monaci in Alvernia, la cima del Pirchiriano diventò punto di sosta per ricchi pellegrini, quasi un centro culturale internazionale. E luogo dello spirito resta, nonostante l’antichissimo nome del monte, «Pirchiriano», sia una forma elegante di «Porcarianus», monte dei Porci. Analogamente i vicini Caprasio, monte delle Capre e Musinè, monte degli Asini. Il «genius loci» rimane, per chiunque percorra e scopra questo angolo dell’amata alle di Susa.