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 2017  agosto 13 Domenica calendario

Tornare a Maastricht penalizza i paesi più deboli

Sta prendendo corpo l’idea di proporre ai nostri partner europei di semplificare le regole fiscali comuni, e di «tornare a Maastricht», ossia al semplice rispetto del 3% come soglia massima per il disavanzo pubblico, in rapporto al Pil, ed eliminando le norme introdotte successivamente (con le varie riforme del patto di Stabilità e il Fiscal compact), che hanno reso negli anni il sistema più complesso, forse troppo. Tornare alle regole originali, di 20 anni fa, presenta alcuni vantaggi. La proposta consentirebbe di superare le diatribe metodologiche, sorte anche di recente tra i Paesi dell’euro, riguardanti in particolare il calcolo di alcuni parametri come il saldo strutturale necessari per valutare l’adeguatezza dei conti pubblici. Può anche essere un modo per ridurre il grado di discrezionalità lasciato alle autorità di Bruxelles, che talvolta desta tensioni tra i governi nazionali e le istituzioni europee, e per evitare negoziati non sempre trasparenti sullo «zerovirgola» in più o meno di disavanzo. Basta infatti mantenere il disavanzo pubblico sotto la soglia del 3% per rispettare le regole. Tornare a Maastricht potrebbe anche essere un modo per superare il Fiscal compact, per chi considera che gli obiettivi di riduzione del debito pubblico ivi contenuti sono troppo ambiziosi. Infine, per un Paese come l’Italia, che già rispetta il vincolo del 3%, si potrebbero creare margini di flessibilità per stimolare l’economia attraverso lo strumento fiscale.
D’altro canto, il ritorno alle regole concordate nel Trattato del 1992, rischia di produrre una serie di effetti non desiderati, da valutare con attenzione. In primo luogo, il Trattato di Maastricht non prevede una sola regola – la soglia del 3% per il disavanzo pubblico (in rapporto al Pil) – bensì due. La seconda stabilisce che il debito pubblico non debba superare la soglia del 60% in rapporto al Pil. In caso contrario, il rapporto si deve ridurre in misura sufficiente e deve avvicinarsi al valore di riferimento ad un ritmo adeguato. Il Trattato non specifica cosa si debba intendere per «misura sufficiente» e per «ritmo adeguato», concetti successivamente sviluppati nella normativa secondaria e poi nel Fiscal compact. In ogni caso, se si tornasse alle regole iniziali, l’Italia si troverebbe a violare una delle due, poiché il suo debito pubblico è aumentato (in rapporto al Pil) negli ultimi anni e non è previsto ridursi nell’anno in corso. L’Italia verrebbe dunque messa di nuovo sotto procedura di disavanzo eccessivo, dopo esserne uscita quattro anni fa, grazie proprio all’interpretazione flessibile consentita in particolare dal Fiscal compact, che tollera una non-riduzione del debito nel caso in cui un Paese abbia attraversato una forte recessione.
Il problema è che non basta avere un disavanzo di bilancio inferiore al 3% per assicurare una riduzione duratura del debito pubblico, se l’economia è anemica, come quella italiana nell’ultimo ventennio. Anche nella migliore delle ipotesi di crescita e di inflazione per i prossimi anni, è difficile che l’Italia riesca a ridurre il proprio debito in misura soddisfacente e ad un ritmo adeguato se si accontenta di mantenere il saldo del disavanzo pubblico poco sotto il 3%. Come ha ricordato il Governatore della Banca d’Italia una riduzione duratura e sostenibile del debito pubblico richiede il mantenimento di un saldo primario – ossia al netto del pagamento degli interessi sul debito – intorno al 4% del Pil, per vari anni di seguito. Dal 2013 al 2016 il saldo primario italiano è invece sceso, dall’1,9% all’1,6%, del Pil, ed è previsto rimanere sostanzialmente immutato nei prossimi anni.
In secondo luogo, un ritorno alle regole iniziali creerebbe un incentivo ad adottare saldi di bilancio molto vicini alla soglia del 3%, ad esempio il 2,9%, il che determinerebbe delle politiche fiscali pro-cicliche, con effetti restrittivi in fasi recessive ed espansivi in fasi di crescita. È proprio quello che è successo all’inizio dell’unione monetaria, quando i principali Paesi dell’area, in particolare la Germania, la Francia e l’Italia si accontentarono di mantenere il disavanzo poco sotto al 3% del Prodotto interno lordo, nonostante la buona crescita registrata nel periodo 1999-2000, trovandosi poi a superare il 3% ai primi segni di rallentamento ciclico, nel 2001-2003. L’applicazione delle regole originarie richiedeva una correzione restrittiva in una fase congiunturale sfavorevole, che avrebbe accentuato la recessione. L’iniziativa politica dei principali ministri finanziari, sotto presidenza italiana, evitò una applicazione meccanicistica del Trattato, e portò a una sua evoluzione per inserire la valutazione delle finanze pubbliche nel contesto macroeconomico più ampio di ciascun Paese, in particolare correggendo i saldi di finanza pubblica per gli effetti del ciclo economico. Tali indicatori non sono perfetti, e sono oggetto di continue discussioni e aggiornamenti. Ignorarli, tornando alla sola regola del 3%, rischia di buttare a monte i progressi ottenuti negli anni per rendere il Trattato più flessibile e «intelligente».
Infine, è difficile pensare che il ritorno al punto di partenza per quel che riguarda le regole di bilancio non abbia conseguenze sul resto dell’architettura istituzionale dell’unione monetaria, dal fondo salva Stati all’unione bancaria, fino alle politiche di intervento della Bce (ad esempio il Quantitative easing). Il processo di integrazione europeo si è sviluppato in questi anni sul parallelismo tra, da un lato, la riduzione del rischio, in particolare attraverso il rispetto delle regole e la convergenza degli andamenti economici e, dall’altro lato, la condivisione del rischio, attraverso la creazione di istituzioni e meccanismi di gestione in comune delle politiche economiche. La richiesta di smontare l’infrastruttura elaborata in questi anni intorno alle regole fiscali non potrebbe che far rimettere in discussione i passaggi istituzionali realizzati in altri settori. Indebolirebbe qualsiasi tentativo di rafforzare la solidarietà tra Paesi.
Alcuni critici dell’euro, soprattutto in alcuni Paesi nordici, potrebbero rallegrarsene. Se non c’è la volontà politica comune, ciascun Paese dovrà farsi pieno carico del proprio debito, e vengono meno i presupposti per aiutare i Paesi che perdono accesso al mercato finanziario, come avvenuto per Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda. Lo stesso intervento della Bce sul mercato dei titoli di Stato sarebbe inopportuno.
In sintesi, appare difficile rimettere in discussione alcuni aspetti dell’unione monetaria senza doverne rivedere l’intero assetto, con il rischio di ridurre l’integrazione e di eliminare qualsiasi rete di protezione per le finanze pubbliche dei vari Paesi. A rimetterci sarebbero le parti più deboli dell’unione. «Tornare a Maastricht» può sembrare un programma attraente, ma rischia di produrre gli effetti opposti a quelli desiderati, indebolendo economicamente e isolando politicamente chi lo propone.