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 2017  agosto 13 Domenica calendario

Vi svelo il segreto del New Yorker

Se chiedete a David Remnick, direttore del New Yorker, che cosa servirà ai giornali e ai media per sopravvivere nell’era digitale, lui vi risponderà che, più di tutto, “ci vorranno le uova, come dicono i russi. O, come diciamo noi, le palle”. Dietro quest’espressione da spogliatoio, pronunciata nonostante lo sguardo severo del fondatore del New Yorker Harold Ross (nel 1925) incorniciato davanti alla sua scrivania, c’è l’idea di giornalismo di questo 58enne premio Pulitzer, che da quasi vent’anni (li compirà il prossimo luglio) dirige il settimanale più prestigioso d’America. Avere le uova per Remnick è innanzitutto non rinunciare mai a rigore, dignità e soprattutto identità, nonostante i tempi molto difficili. Una nobile resistenza, dunque. «Stiamo attraversando una tempesta perfetta per chi vuole uccidere la stampa – spiega – da un lato la crisi della pubblicità, dall’altro il mare di stupidaggini e bufale online nel quale nuotiamo, con Trump che ogni giorno delegittima il lavoro dei media. Non so quanto durerà, ma dobbiamo adeguarci difendendo e migliorando ogni giorno il nostro lavoro. È cruciale essere inattaccabili. I lettori oggi ti pagano solo se offri professionalità e bella scrittura». Remnick è nel suo luminoso studio con vista sul fiume Hudson, Wall Street e Statua della libertà. Sta rivedendo e chiudendo il numero della prossima settimana. Il New Yorker ha abbandonato la storica sede di Times Square per trasferirsi, insieme ad altre controllate dell’editore Condé Nast, al 38esimo piano del One World Trade Center, il babelico grattacielo celeste costruito dopo l’11 settembre. La redazione è rimasta vecchio stampo: niente tavoli concentrici ma un open space composto da più ambienti – i settori – che ruotano intorno all’ingresso e a una cucina. Moquette grigia, scrivanie bianche, cassettiere di legno, e, alla fine della newsroom, un’oasi di libri di ogni genere, accumulati a terra, pronti per essere scambiati. Infine, per ogni firma del giornale, uno studio trasparente, con biglietti da visita sulla porta: Malcolm Gladwell, Adam Gopnik, Amy Davidson, Ryan Lizza (l’interlocutore della delirante telefonata di Scaramucci)... ci sono tutti. Il New Yorker, nonostante Internet e la crisi globale dei media, va forte. Negli ultimi anni le vendite sono sorprendentemente cresciute. Se nel 2010 sfioravano il milione, oggi, rivela Remnick, «siamo a 1,3 milioni a settimana, tra carta e digitale», con un incremento di 200mila negli ultimi mesi. Solo a gennaio 2017 ci sono stati 100mila nuovi abbonamenti: un aumento del 300 per cento rispetto all’anno precedente, cruciale perché il 55 per cento delle entrate del magazine arriva dai lettori. Anche gli abbonamenti online sono cresciuti in media dell’80 per cento anno dopo anno, così come il traffico, giunto a 16 milioni di utenti unici. Qual è dunque il segreto, Remnick? «Non pensiamo preventivamente a cosa fare su carta o online, pensiamo solo a fare il più possibile. In genere 15 articoli al giorno solo per il web, poi abbiamo una radio con i podcast (genere di gran successo, ndr), ma importiamo anche molti contenuti dal settimanale cartaceo. Un tempo si pensava che i “longread”, i pezzi lunghi, non fossero adatti a Internet e che nessuno avrebbe pagato per le notizie. Grazie a Dio, sono stati tutti smentiti. Ai lettori piacciono gli articoli scritti bene, affidabili, pubblicati dopo un rigoroso fact-checking, e ci permettono di andare avanti mentre la pubblicità cala sempre di più, risucchiata da Google e Facebook, che oramai ne controllano il 70 per cento online. Non ho nulla contro di loro, ma devono darci un compenso visto che spendiamo un sacco di soldi per realizzare contenuti che loro poi veicolano sul web, guadagnandoci molto». Ma quanto è cambiato il New Yorker con Remnick, dopo la controversa gestione di Tina Brown? «Con me è diventato più politico rispetto al passato. L’effetto Trump si fa sentire, noi ci siamo adeguati (il settimanale è molto spesso critico nei suoi confronti, ndr) e questo ai nostri lettori piace, evidentemente. Inoltre, siamo più attenti rispetto alle news internazionali. Per quanto riguarda le sezioni culturali, invece, in passato il New Yorker aveva delle lacune: pezzi meravigliosi sul jazz, che però non andava oltre gli anni 60. Nessun profilo di Elvis Presley o dei Beatles. Un magazine non può coprire tutto, ma credo molto nella cultura pop, quindi mi son chiesto: la storia ci perdonerà se ignoriamo Jay-z, Twitter, Breitbart e un rapper come Kendrick Lamar?» E così il New Yorker ha cambiato passo. È diventato più popolare, senza snaturarsi, sia chiaro: «Noi non siamo come Time – puntualizza Remnick – perché secondo me il concetto di un settimanale generalista nel mondo delle news 24 ore su 24 non ha molto senso. Noi non siamo l’Economist che standardizza e mette l’anonimato ai pezzi, perché per noi la scrittura individuale conta moltissimo e cementa la nostra identità. E non siamo nemmeno come Harper’s, mensile con una presenza minima online. Essere settimanali è una benedizione, e qui siamo molto attenti alle news: il pezzo ideale è tempestivo e contemporaneamente senza tempo. Anche per questo, siamo l’unico magazine che ha vinto un Pulitzer, anzi tre, con Emily Nussbaum, Kathryn Schulz e Hilton Als, dopo che due anni fa sono state ammesse al premio anche le riviste. Nessun altro c’è riuscito». Ma, oltre ai contributi di scrittori eccelsi, da Philip Roth a Salman Rushdie, quali qualità devono avere le firme del New Yorker? «Talento e ossessione». Cioè? «Una cosa è per me fondamentale: non voglio mai che un mio giornalista debba scrivere di qualcosa che non gli interessi. La grande scrittura nasce dall’ossessione, non dall’obbligazione meccanica. Siamo un magazine di sorprese, non di costrizioni». Trump intanto insulta ogni giorno i media, ma i suoi attacchi sembrano boomerang. Oltre agli ottimi numeri del New Yorker, lo scorso maggio il “fallimentare” New York Times (Donald dixit) ha fatto segnare il record di abbonati nel primo trimestre, 308mila. E anche il Washington Post gode di buona salute. Questo presidente sta facendo del bene, paradossalmente, ai giornali? «Sì, è sicuramente la principale ragione per cui il New Yorker è così in forma – confessa Remnick – anche se non bisogna illudersi. L’arrivo di uno come Trump ha costretto noi dei giornali a guardarci negli occhi e a migliorarci. Dovevamo farci un esame di coscienza. Non basta essere filosofi, bisogna agire». E cosa significa agire, Remnick? «Noi, come diffusione cartacea arriviamo a 3 milioni di persone, l’un per cento del popolo americano. Molte persone neanche sanno chi siamo, molte altre vedono solo Fox News. Ma, da giornalisti, abbiamo un ruolo cruciale: non dimenticare i cittadini delle “periferie”, che vivono nei piccoli centri di Utah, Colorado, Kentucky... I corrotti, soprattutto di queste aree “minori”, la scamperebbero quasi sempre se non ci fossero i giornali. Dobbiamo ritornare sul territorio e raccontare cosa succede, difendere chi ci abita. Non a caso Trump ha vinto in queste aree dimenticate. I giornali, ammettiamolo, hanno sottovalutato l’impatto della globalizzazione sulla classe media. Ma l’errore ci sta, il New York Times, il miglior giornale del mondo, bucò la notizia dell’Olocausto. L’importante è capirne le cause e ripartire, pensare al presente. Non al passato e nemmeno al futuro, che oramai è troppo veloce e imprevedibile. Dopo aver visto Trump presidente e i vinili tornati di moda, ho capito che oggi qualsiasi previsione è inutile».