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 2017  agosto 13 Domenica calendario

Un algoritmo reinventa l’arte (ma non sarà mai Jackson Pollock)

Un immaginario museo dedicato all’astrazione contemporanea. Al primo piano, i dipinti visionari di Pollock, de Kooning, Gorky, Hofmann, Kline, Motherwell, Newman, Reinhardt e Richter. Autori che intrattengono un rapporto inquieto con il visibile. Spesso, lo contraddicono. Erigono intorno a esso fossati invalicabili e sentieri impervi. Lo riducono agli elementi più puri.
Si pensi ai dripping di Pollock, che, nelle sue calligrafie, registra echi istantanei. I suoi quadri sono schermi ricoperti di schizzi. Una fantasmagoria dove nulla è casuale. Osservati attentamente, questi grovigli di segni svelano un ordine segreto, un implicito ritmo. Inoltre, si pensi ai dipinti di Richter, invasi da un flusso spontaneo di colate cromatiche, sottolineate da agili spatolate, dense di rimandi all’informale. Parlando dei suoi lavori, l’artista ha detto: «Dipingere un quadro astratto è procedere a tentoni in modo quasi disperato, come una persona indifesa lasciata in un ambiente che non conosce».
Al secondo piano della nostra pinacoteca impossibile, le «astrazioni mediate», come quelle di Brian Eno e di Nanni Balestrini, nelle quali vengono fuse soluzioni artigianali e artifici elettronici. Due esempi. 77 Million Paintings, work in progress in cui da anni il musicista inglese assembla una miriade di quadri, che poi un «sistema generativo» seleziona e dispone, lasciando affiorare vorticosi caleidoscopi e paesaggi psichedelici. Poi, Tristanoil di Balestrini. Un film montato da un computer che amalgama, in tanti capitoli di dieci minuti, oltre 150 videoclip. Ogni unità è diversa dall’altra pur trattando lo stesso tema: gli effetti distruttivi del petrolio sul pianeta. Grazie a un sofisticato software, Balestrini mette insieme eterogenei materiali. Con la tecnica del cut-up, calibra un remix di scene della serie tv Dallas, di news di disastri ecologici, d’immagini della Borsa, delle favelas e di episodi di cronaca.
Siamo al terzo piano del nostro museo. Attraversiamo ora le sale dell’«astrazione meccanica». Alle pareti, le opere create dall’Art and Artificial Intelligence Laboratory della Rutgers University, in New Jersey (in questa pagina proponiamo una selezione di sedici di queste opere. La scorsa settimana «la Lettura» aveva dedicato due pagine alle fotografie «inventate» da un algoritmo). L’autore? Non un artista ma un algoritmo, chiamato Can (Creative Adversarial Networks). Una sperimentazione che mira a mettere in crisi certi modelli umanistici, dischiudendo orizzonti poetici seduttivi ma pericolosi. Per cogliere il significato di questa iniziativa, occorre riflettere sul potere di quelle presenze occulte, capaci di orientare le nostre vite e di governare le nostre scelte, che sono proprio gli algoritmi, ai quali Paolo Zellini ha dedicato un recente ciclo di articoli e il suo ultimo libro, La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini (Adelphi).
Alcune profezie avanzate da scrittori come Asimov e Clarke sembrano avverarsi. Dalle tecniche industriali alla diagnostica medica, dai social network al volo degli aerei, dai big data ai motori di ricerca di Google e di Yahoo!: gli algoritmi sono ovunque. Si tratta di procedure complesse, cui «deleghiamo la buona riuscita di operazioni che gli esseri umani, da soli, non saprebbero eseguire». Sequenze matematiche che, ha ricordato Zellini, devono soddisfare due requisiti: «A ogni passo della sequenza è già deciso, in modo deterministico, quale sarà il passo successivo, e la sequenza deve tendere a un risultato concreto, reale e virtualmente utile».
Gli algoritmi hanno un carattere ibrido. Sono essenze «dubbie»: ideali, eppure ancorate alla realtà. Si pongono tra dimensione concettuale e concretezza. E, insieme, sono entità che ci illudiamo di conoscere e di dominare perfettamente; si basano, però, su «strutture matematiche astratte».
Anche la psicologia ne è contaminata: un recente articolo apparso sull’«Economist» sostiene che, in futuro, i computer diventeranno assistenti degli psichiatri, aiutandoli a decifrare i pensieri nascosti dietro le nostre espressioni facciali. Le medesime intenzioni sono sottese al progetto portato avanti dai ricercatori della Rutgers, i quali dapprima hanno organizzato un vasto database di più di 80 mila opere d’arte tratte da WikiArt. Poi, hanno «chiesto» a Can (una sorta di storico dell’arte gestito dall’intelligenza artificiale) di ricombinarle e di riarticolarle, fino a rendere impossibile l’individuazione degli originali. Infine, sono approdati a opere «ulteriori», spesso caratterizzate da una materia che sembra generarsi da sé. Composizioni talvolta felici ed efficaci: quasi-fauves, quasi-neoespressionisti. Vicine ai quadri di Hofmann, di Kline o di Richter. Sembra il compimento di quel che aveva sognato Warhol: «I want to be a machine».
Inoltre, gli scienziati americani hanno curato un’esposizione nella quale hanno accostato gli anonimi quadri «meccanici» ad alcune tele dei maestri dell’espressionismo astratto statunitense. Con acume, hanno evitato ogni accompagnamento informativo. Sulle orme di quel che aveva fatto la Schirn Kunsthalle di Francoforte nel 2007 con la mostra Anonym, dove non era stata fornita nessuna indicazione del nome del curatore né dell’identità degli autori dei quadri e delle sculture. L’esito della provocazione della Rutgers è stato inatteso: un sondaggio ha rivelato che il pubblico preferiva i quadri prodotti dal computer.
Certo, esistono apparenti affinità e consonanze visive tra i pattern di Richter e quelli generati da Can. Ma le differenze restano profonde. Un computer non inventa dal niente: può solo estrarre liberamente alcuni frammenti da un immenso arsenale di figurazioni custodito nel web, che poi ri-medierà, ri-locherà e renderà irriconoscibili, replicando così la funzione random shuffle su cui si fonda l’iPod.
L’artista autentico è come il Robinson Crusoe di Defoe: mette per primo piede su un’isola sconosciuta e disabitata. Ha il dovere di inventare iconografie che prima non esistevano; di esplorare geografie visuali mai frequentate.
Quest’artista può compiere scorribande in contrade lontane, dove incontrerà stimoli e suggestioni. O attingere anche a riferimenti matematici e informatici, in maniera impressionistica o intuitiva. Ma dovrà sempre trattare quelle «voci» come echi di fondo, da ricondurre dentro l’alveo di drammaturgie umane, troppo umane. Che nessun pur avanzato dispositivo potrà mai ripetere.
A questo scacco allude Zellini: «Anche in presenza dei più perfezionati algoritmi l’uomo rimanda sempre a qualcosa di esterno al loro meccanismo, a una responsabilità e a una libertà radicale che coincide con quella essenziale incompletezza che la tradizione filosofica e sapienziale hanno ontologicamente identificato come l’essenza stessa dell’uomo».