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 2017  agosto 13 Domenica calendario

Mangiamo gli altri animali per sentirci superiori a loro

Perché continuiamo a nutrirci di animali, vivendo in una società che dispone di molte alternative alimentari? Forse perché la carne «è buona»? La risposta non pare granché soddisfacente, visto che evitiamo di mangiare cibi che sarebbero altrettanto buoni (la carne umana, per esempio). Come mise in luce Marvin Harris, un cibo buono da mangiare è in primo luogo «buono da pensare»: le scelte alimentari hanno certo una base biologica (nutrirci), ma le società le riempiono di significati che si radicano nella storia e nella cultura. Mangiamo carne perché siamo naturalmente e inevitabilmente carnivori? Anche questa risposta è discutibile: l’essere umano è biologicamente un onnivoro e dunque la carne può (ma non necessariamente deve) essere una parte della sua dieta.
Su più fronti oggi cresce un diffuso malessere, a volte una critica aperta e radicale all’umanità carnivora. Ragioni etiche come il rispetto degli animali, alcuni dei quali sono ormai riconosciuti in diverse legislazioni come «quasi-persone»; ragioni ecologiche come l’impatto devastante che la produzione di carni animali a fini alimentari ha sul pianeta al tempo dell’Antropocene; ragioni economiche legate all’insostenibilità sociale della divisione tra un’umanità che mangia abbondantemente carne e un’umanità che non ha di che sfamarsi, spingono a mettere in discussione il carnivorismo.
Un lungo e denso saggio della filosofa francese Florence Burgat, L’humanité carnivore, esplora la questione e si chiede se ci siano alternative praticabili. Il libro parte da una domanda che ribalta il senso comune: uccidiamo gli animali per poterli mangiare, oppure li mangiamo per poterli uccidere? La trasformazione simbolica degli animali in «carne», un concetto che nasconde la morte necessaria e trasforma esseri viventi in «cose», è in realtà un’operazione che va ben al di là delle questioni alimentari. Noi umani mangiamo gli animali per delimitare un confine, per rivendicare il nostro stato di eccezione, per ribadire l’antropocentrismo che nutre il nostro senso di superiorità. «Il quarto e ultimo passo – scrive Immanuel Kant – che la ragione compì, nel sollevare interamente l’uomo al di sopra della comunità con gli animali, fu questo: egli comprese di essere davvero il fine della natura… La prima volta che egli disse alla pecora: “Il vello che tu porti, la natura non te l’ha dato per te, ma per me”, la spogliò di esso e se ne vestì, egli ebbe coscienza di una prerogativa che, grazie alla sua natura, aveva su tutti gli altri animali, i quali allora non considerò più come suoi compagni nella creazione, ma come mezzi e strumenti lasciati al suo volere per il raggiungimento degli scopi che preferiva».
Al cuore del carnivorismo, che solo in alcune fasi della storia dell’umanità è stato una necessità inevitabile, sta una questione metafisica, non alimentare: la delimitazione del confine tra «noi» e gli «altri», che possono essere anche esseri umani radicalmente altri (ed ecco il perché del cannibalismo). La struttura ideologica del «sacrificio», che permette una messa a morte non criminale degli «altri-da-noi», tende a confermare l’esistenza un confine invalicabile che protegge l’umanità da quelli che in realtà sono i suoi simili, ovvero gli altri esseri viventi. Siamo dunque carnivori per scelta? Su questo punto la filosofa francese ha una posizione ambivalente e a mio giudizio contraddittoria. Tutta la prima parte del libro argomenta con autorevolezza e convinzione la tesi della scelta. Per lungo tempo infatti l’umanità ha fatto ricorso prevalentemente a proteine vegetali: sappiamo da tempo che la raccolta fu di gran lunga più importante della caccia. Gli studi sull’arte rupestre mettono oggi in luce che le scene di caccia sono pochissime e spesso gli animali rappresentati non erano prede abituali. Alcuni studiosi propongono di ridimensionare il ruolo della caccia nel processo di ominazione, mettendo piuttosto l’accento sullo sviluppo delle capacità di condivisione del cibo. Non a caso, tra gli scienziati della paleoantropologia, si è diffusa la cosiddetta scavenging hypothesis (da to scavenge: «recuperare», a scavenger : «animale che si nutre di carogne»). Perlopiù cacciatore di piccole prede, l’uomo primitivo si sarebbe in realtà nutrito di grandi prede catturate da altri carnivori, con cui viveva in simbiosi. E se le pitture rupestri rappresentassero i compagni della creazione più che le prede? La tesi della scelta è difendibile anche per l’esistenza di religioni che in epoca storica hanno rifiutato il consumo alimentare di animali: dall’India alla Cina «si tratta però di attitudini eccezionali in un insieme culturale variegato in cui è ampiamente affermato il consumo di carne e di pesce».
La domesticazione degli animali, la loro riduzione a oggetti del desiderio e delle violenze umane, cambiò il quadro (lasciando solo isole di vegetarismo). L’affermazione dell’antropocentrismo coincide con la diffusione a livello planetario della struttura del sacrificio che fa della «giusta» e inevitabile morte animale il contraltare all’esaltazione e agli eccessi dell’ anthropos. Il carnivorismo diventa una struttura profonda o forse rivela la «natura» violenta dell’essere umano. «Secondo la via freudiana, la violenza precede la storia», scrive la Burgat.
Ma allora siamo carnivori per scelta o per natura (seppure una natura psicologica o ontologica, più che alimentare)? La Burgat non sa che farsene dell’antropologia sociale e dei suoi studi su altre culture che hanno limitato o vietato l’uso alimentare delle carni. Considera l’etnologia una dimensione «di superficie» e vede nell’antropologia filosofica l’accesso a una dimensione profonda. La parsimonia del contadino tradizionale, che alleva con cura il suo maiale e lo sacrifica solo in occasioni rituali e conviviali, non è altro che la conferma della struttura del sacrificio che esplode in tutta la sua forza nell’attuale eccidio di massa di miliardi di animali che finiscono sulle tavole di vecchi e nuovi affamati carnivori.
Scriveva Jacques Derrida che un certo grado di cannibalismo è inevitabile. Non si può contare sulla rinuncia volontaria dell’umanità alla violenza, gli fa eco la filosofa francese che propone – per uscire dal carnivorismo – di giocare d’astuzia. Se la struttura sacrificale è inevitabile perché ancorata al fondo dell’uomo (una tesi su cui avremmo molto da ridire…), possiamo agire solo attraverso operazioni simboliche di «sostituzione». Che l’uomo continui a pensarsi carnivoro: purché la «carne» sia prodotta a partire da proteine vegetali (le polpette di soia) o in vitro (una sperimentazione in atto), coltivando cellule animali. Produrre muscoli in laboratorio sembrerebbe essere una tecnologia promettente, che eviterebbe la morte in massa dei nostri compagni. La ragione carnivora è sovrana e solo l’inganno può sconfiggerla.