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 2017  agosto 13 Domenica calendario

Venezuela: i bambini e l’iguana

La più bella estate della mia vita cominciò nel luglio del 1975 e non è mai finita. È come se si fosse infilata in mezzo al presente, sciogliendosi nelle cose. A volte la ritrovo nel ritmo di una canzone, nell’odore di frutta tropicale o nella luce del mezzogiorno.
Avevo appena compiuto diciott’anni quando andai a passare l’estate dai miei zii in Venezuela. All’epoca non era un viaggio da poco. Del lungo volo su un Boeing della Viasa (una compagnia di bandiera ormai estinta) non ricordo più nulla. Ricordo invece la prima boccata d’aria calda e umida, densa come sciroppo, sulla pista dell’aeroporto nella notte tropicale di Caracas, dove l’aereo era atterrato in ritardo facendomi perdere il volo per Maracaibo. Il tassista mi lasciò all’una di notte davanti a un tugurio che secondo lui era un hotel. Quando entrai, il giovane portiere saltò su da dietro il bancone, puntandomi contro un fucile a canne mozze. Mi spiegò a gesti che era stato rapinato due sere prima. Dormii poco. Alle sei del mattino m’imbarcai su un vecchio quadrimotore dell’Aeropostal che fece non so quanti decolli e atterraggi su piste in terra battuta rosse come ruggine o scure come cioccolato, ferite nel cuore verde della foresta amazzonica. Alcuni finestrini erano riparati con lo scotch. L’anziana hostess scoppiava in un riso convulso a ogni vuoto d’aria. Il pilota sembrava manovrare a vista. Penso di aver rischiato più volte di morire in quel viaggio che nel resto della mia vita in volo.
Gli zii di Maracaibo I miei zii gestivano un hotel con ristorante nel centro di Maracaibo. C’erano un sacco di italiani in città e tutti, prima o poi, pranzavano o cenavano lì. Una volta c’era stato anche l’evaso Henri Charrière, il mitico Papillon. Era una città molto grande, in cui spostarsi a piedi per più di qualche passo era considerato da idioti. Capii perché quando uscii a piedi per fare il giro del quartiere e mi presi un colpo di sole che mi stese per tre giorni. Li passai guardando i film del «Pianeta delle Scimmie» in spagnolo e studiando le abitudini delle piccole iguane marroni o grigie che invariabilmente riuscivano a entrarmi in camera, non so come.
Maracaibo nel 1975 era un posto meraviglioso per passarci l’estate, se eri nato dalla parte giusta. Era un’esperienza quasi coloniale. Neanche li vedevi, gli indios che ti servivano un cocktail o un sandwich ai bordi della piscina della lussuosa Casa de Italia. Neanche ti accorgevi del fatto che per strada non incontravi mai un vecchio.
Dei nativi mi colpiva il senso dell’umorismo e la loro grande ironia. Mi piaceva il loro modo di chiamarti hermano, o ’mano: fratello. Che il Venezuela fosse anche un posto pericoloso lo capii per la prima volta vedendo la paura dei contadini fermati a un posto di blocco, sulla strada per la spiaggia. I militari li facevano scendere dal camion e stendere faccia a terra. A noi fecero segno di passare. Muoversi, muoversi! Tenevano donne e bambini sotto il tiro dei loro fucili M16.
Un altro giorno dovemmo andare a recuperare un amico arrestato per un’infrazione stradale. Il carcere era una specie di assurdo tempio egizio assediato da un’umanità sudata che aspettava il rilascio dei loro cari. Un corpulento sergente della polizia camminava su e giù davanti al portone, battendosi lo sfollagente sulla coscia. Sembrava una scimmia. Di tanto in tanto allungava una manganellata sulle dita di qualcuno, meccanicamente. Un gay nero dai capelli ossigenati, strizzato in un’incredibile tuta rossa, strillò come una groupie quando i suoi amici uscirono dal carcere.
Le feste e i motoscafi Era un Paese ricco, pieno di gente povera. Era come il Paradiso Terrestre ma senza le istruzioni. La benzina era praticamente gratis. Le spiagge erano immense e deserte. Affittavi per pochi centesimi un capanno, infilavi la mano nella sabbia e tiravi su manciate di molluschi ottimi per la paella. Per strada, a tratti incrociavi dei bambini seminudi con un’enorme iguana sulla testa. Se volevi, per un pugno di centesimi aprivano la pancia del rettile e ti vendevano le uova. Le iguane di campagna erano verde smeraldo, molto più belle delle loro cugine di città.
I miei amici di quell’estate venivano da ogni parte del mondo. C’era Natalia Schmidt, bionda e con gli occhi color fiordaliso, di cui m’innamorai senza speranza, goffo e timido com’ero. Dopo il ‘45 erano arrivati molti tedeschi, in Venezuela. C’era, e c’è ancora, una città, Colonia Tovar, che sembrava un angolo di Baviera teletrasportato in Sudamerica.
Tedesca era la «señora Cecilia» che coltivava garofani in una vallata di montagna. Distese di garofani. Ci fermammo da lei durante un giro delle Ande sulla Lincoln Continental di mio zio, un bestione di lusso lungo quasi sei metri che si muoveva sulle strade tutte curve delle Ande con la maestosità di un transatlantico. Guidava Naim, un ragazzo siriano, l’unico di noi che avesse già la patente. Tornò in Siria, qualche anno dopo. Ad Aleppo, di tutti i posti possibili… Così anche Carlos, un ragazzo che faceva di tutto per somigliare al Che Guevara, tornò e si perse nell’Argentina del golpe.
Nel passato di ognuno di noi c’è un’estate felice che è rimasta com’era. Un’Atlantide che non si è ancora inabissata, in cui Carlos e Naim sono ancora vivi e giovani e ci imbuchiamo a feste dove scorrono fiumi di champagne e Johnny Walker Black Label, e in cortile ci sono motoscafi Riva nuovi di zecca che nessuno si sogna di usare. Guardo con batticuore il corpo snello di Natalia pensando che tra poco ballerò con lei The Hustle di Van McCoy o Can’t Get Enough Of Your Love Baby di Barry White. Invece fu Midnight Train To Georgia la canzone che ballammo, la prima e unica volta, un lento morbido e avvolgente di Gladys Knight & The Pips. La palla da discoteca lanciava raggi di luce che le accendevano gli occhi. Avrei voluto sussurrarle all’orecchio i versi di un poeta russo allora giovane, che parlava della bellezza e del futuro. Ma cosa ne sai del futuro a quell’età? Cosa t’importa, del futuro?
Il bagno tra i coccodrilli Quell’estate infinita nuotammo nel lago di Maracaibo fra le radici delle mangrovie, ignari dei coccodrilli che le frequentavano, corremmo fino a stordirci sul Pico el Aguila, a 4.000 metri, masticammo foglie di coca in un paesino senza luce elettrica ma con un brutto monumento del Rotary in piazza, e poi scendemmo maestosi come giovani re verso la Colombia, dove la polizia proteggeva i pochi turisti dalle Farc e smunti bambini seminudi ci guardavano da dietro le vetrate sorseggiare le nostre cervezas gelate e mangiare filet mignon nell’aria condizionata di un ristorante. In Colombia, come resto di una moneta da un bolivar, ti davano un pacco alto così di banconote colorate, che lanciavamo in aria perché i bambini le raccogliessero.
Fu la migliore estate della mia vita. Non lo fu per tutti, ma per me lo fu. È ancora lì, dopo tutti questi anni. E a mano a mano che la vita si stringe, i colori di quei giorni diventano più vivi, i suoni più nitidi. La porta su quell’estate è sempre aperta. Carlos e Naim, e Angel, mi sorridono.
«Ehi, ’mano, ti va di farti un giro?».