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 2017  agosto 12 Sabato calendario

Foggia. Rosa, la donna di due boss pentita per amore dei figli «L’unico modo per salvarli»

«Me l’è magnat, tutta la faccia. Poi mi sono leccato il sangue». Per capire la mafia del foggiano, per conoscere chi sono i boss che l’Italia ha scoperto in queste ore ma che in questa terra spargono silenzio e terrore da 30 anni almeno, è necessario ascoltare chi li conosce bene, forse meglio di tutti. Le loro mogli. Sono tre donne, tre mamme, tre pentite, le persone che hanno raccontato meglio la mafia del Gargano in questi anni. Si sono ribellate, hanno parlato, e ora vivono lontane con i loro figli. Nascoste, e protette. Rosa di Fiore. Famiglia per bene, figlia di un’insegnante, è la più bella del paese. È una bambina quando si innamora del capobastone della sua zona, Pietro Tarantino. Tarantino è un nome importante sul Gargano. Ci fa tre figli. Poi scappa. Si innamora di Matteo Ciavarella. I Ciavarella e i Tarantino sono più che rivali, si ammazzano da generazioni. Ha un figlio da Matteo Ciavarella. Rosa Di Fiore fa diventare fratelli chi avrebbe dovuto odiarsi per il resto della sua vita, secondo le regole dei loro cognomi. Per questo, a marzo del 2004, decide che è arrivato il momento di cambiare: «Non volevo che i miei figli crescessero in quel modo, che diventassero dei boss, che diventassero come i rispettivi padri» ha messo a verbale. E allora ha cominciato a raccontare tutto quello che sapeva, in aula, guardando in faccia i suoi uomini e i loro sodali. Condannandoli anche al carcere a vita. «Mi mandi all’ergastolo» gli ha urlato il suo ex compagno. «Non mi fai più paura; ormai sei un cane che non morde più non mi fai più paura». «Dopo ogni omicidio – ha raccontato ai giudici Rosa, che in famiglia chiamavano Lidia – la mamma di Matteo lo lavava con acquaragia per eliminare eventuali macchie di polvere da sparo, gli forniva alibi e abiti puliti. Perché era proprio la famiglia a spingere Matteo a uccidere, per sete di vendetta». «Matteo quando sceglieva una vittima usava sempre una frase diceva: “Questo me lo mangio”». E, per usare le parole del procuratore distrettuale antimafia, Giuseppe Volpe, «questi signori non usano metafore». Il 5 dicembre 2002 Matteo Ciavarella uccise Carmine Tarantino, l’ex cognato della Di Fiore, con una raffica di proiettili in volto. Rosa, davanti al pm della Dda Domencio Seccia, racconta come andarono le cose: «Matteo mi descrisse il modo in cui gli sparò. Mi disse che non aveva più tutta la faccia. Gli chiesi: “Ma era come Michele?, un altro esponente che fu ucciso dalla famiglia. E lui: «No, era molto peggio, ha detto: “Proprio me l’è magnat, me l’è magnat tutta la faccia. Lo sai che ho fatto? mi sono leccato il sangue suo, dopo». La Di Fiore vive da dieci anni in una località protetta. «I suoi figli – dice il procuratore Seccia – non hanno mai imparato a sparare». Emiliano Francavilla è stato invece condannato a 10 anni di galera un anno fa. Per incastrarlo sono state decisive le dichiarazioni di sua moglie, Sabrina Campaniello, che un giorno non si è più presentata al lavoro che la famiglia del marito gli aveva procurato. «Sabrina è sparita – si agita una sua parente, intercettata – è andata al negozio dove lavorava, si è licenziata ed è sparita. Dina dice che le stanno scrivendo, mandando messaggi, telefonando. Il telefono è spento. È matta, la ammazzano». Sabrina era già in una località protetta. Aveva portato con sé suo figlio di pochi mesi, le due figlie più grandi hanno preferito restare con la nonna, con la “famiglia”. «Ma io non voglio mettere un lenzuolino bianco sul corpo di mio figlio» ha detto Sabrina alla pm Lydia Giorgio che la interrogava. «Questi non sono casi ma segni di speranza – spiega Giuseppe Gatti, sostituto della Dda di Bari che da anni segue la mafia foggiana – Le donne che collaborano lo fanno per amore dei figli ai quali decidono di dare un futuro migliore contro la solitudine alla quale, invece, li condannerebbe la mafia. Una strada esiste ed è questa. La fede antimafia è la fede del noi». D’altronde la prima grande vittoria contro la mafia foggiana si deve proprio a una donna. Si chiamava Teresa e ora ha abbandonato anche il suo vecchio nome. Era la moglie del boss Mastrangelo di Cerignola. Ha raccontato a processo delle torture e umiliazioni subite, «non ho mai sentito un silenzio del genere in aula» racconta oggi chi la interrogò. Ha parlato di quando la fecero abortire con le botte e di quando scoprì invece di essere incinta e allora, una notte, decise di scappare lontano. Si parlò a Foggia per la prima volta di mafia grazie anche alle pagine e pagine di verbali che la donna decise di riempire davanti ai pm di allora: uno si chiamava Michele Emiliano. L’altro, Gianrico Carofiglio.