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 2017  agosto 11 Venerdì calendario

Il delitto perfetto. Trenta righe per un omicidio possono diventare 500 pagine. Chicago 1924, il reporter Meyer Levin fa di una bravata di due giovani un capolavoro

A destra, una scena del film «Frenesia del delitto» di Richard Fleischer del 1959 con Orson Welles nel ruolo dell’avvocato dei due ragazzi. Sotto, l’autore del libro «Compulsion», il cronista Meyer Levin PINO FARINOTTI nnnLibro davvero completo, e complesso, Compulsion di Meyer Levin (Adelphi, 580 pagine, 28 euro). Si racconta la storia vera di Nathan Leopold e Richard Loeb, adolescenti che commisero quello che doveva essere il delitto perfetto, e non lo fu, e che divenne poi, secondo i media che lo sfruttarono giorno dopo giorno, per anni, uno dei tanti delitti del secolo. Chicago 1924: i due ragazzi, figli di ricche famiglie ebree, decisero di uccidere un loro compagno solo per fare qualcosa di diverso, dimostrare a se stessi la loro superiorità, provare un’emozione sconosciuta. Ma furono maldestri, vennero scoperti e arrestati. Le famiglie assunsero i più costosi avvocati d’America, che riuscirono a evitare agli assassini la pena di morte. La difesa si basava sui problemi psicologici e le patologie di cui soffrivano i due. E non mancava l’implicazione omosessuale. Secondo una lettura psicoanalitica Leopold e Loeb, che avevano commesso errori banali, volevano inconsciamente essere scoperti, per essere comunque al centro dell’attenzione. Dichiararono che il loro era stato un esercizio intellettuale, e che il modello era l’Ubermensch, il superuomo di Nietzsche. Nel 1956 Meyer Levin ha scritto la loro storia. Levin era stato reporter del Chicago Daily News e veniva da quella pratica «sporca ma efficace» che è la cronaca nera. Inoltre all’università aveva conosciuto i due ragazzi. Seguì la vicenda con professionalità e passione, la stessa di tutto il popolo americano. Compulsion fa parte di quelle storie che vissero tre volte: prima il delitto, poi il racconto cartaceo, poi il film. Ed è stato il precursore di quello che poi è diventato un genere. Gli americani amano queste cose, soprattutto le amano i narratori. E successivamente la formula si perfezionò, e i nomi in gioco erano molto in vista, fra i più importanti della cultura americana. Eccoli i nomi e i delitti. Nel 1959 Richard Fleischer ne fece un film, nella parte dell’avvocato difensore c’era Orson Welles, nientemeno. La moda del delitto raccontato e vissuto in parallelo dallo scrittore riguarda altri omicidi che... si prestavano. Nel 1976 Gary Gilmore uccise due persone, venne arrestato e condannato a morte. Ci vollero dieci anni per arrivare all’esecuzione. Quegli anni, ancora vissuti con passione dagli americani, li raccontò Norman Mailer nel suo romanzo Il canto del boia, del 1979, che gli valse il premio Pulitzer. Ispirandosi a quella vicenda nel 1982 il regista Lawrence Shiller diresse La ballata della sedia elettrica – in realtà il condannato fu fucilato – con Tommy Lee Jones nella parte di Gilmore. Nel 1959 Truman Capote lesse un breve articolo sul New York Times sull’uccisione di Herbert Cuttler, agricoltore del Kansas, di sua moglie e di due loro figli. Lo scrittore ne fu talmente coinvolto che raggiunse il Kansas per avere notizie dirette. Quando vennero catturati gli assassini, Dick Hickok e Penny Smith, Capote trasformò quello che doveva essere un semplice servizio nel suo romanzo più importante, A sangue freddo, dove lo scrittore, durante i sei anni che intercorsero fra la cattura e la condanna per impiccagione, si appassionò alla vicenda di Smith, scrivendogli e visitandolo in cella. Cercava di capire l’ossessione criminale di un uomo dall’intelligenza sopra la media. Quella storia ha ispirato ben due film, uno del 1967, di Richard Brooks, ma è certo memorabile l’edizione del 2005 di Bennet Miller, con uno strepitoso Philip Seymour Hoffman nella parte di Capote. Infine Hitchcock. La storia di Leopold e Loeb ispirò il regista inglese, che non poteva non essere sedotto dalle evidenti implicazioni freudiane, ma solo come spunto. Il master era un dramma di Patrick Hamilton. Il film si intitola Nodo alla gola, del 1948. Gli adolescenti divennero due trentenni, sempre oppressi da pulsioni di superomismo con velate – allora non si poteva fare altrimenti – tendenze omosessuali. I due uccidono un loro amico e lo nascondono in un cassone intorno al quale si muoveranno i personaggi. Gli attori erano John Dall, matrice teatrale, e Farley Granger, prediletto da Visconti, nella parte degli assassini. James Stewart è il loro insegnante che intuisce qualcosa e analizzando atteggiamenti e caratteri, arriva a capire tutto. Hitchcock si divertì realizzando un’opera in un interno, un kammerspiel, giocando su pochi piani sequenza dei quali non si coglie l’incastro. E dunque, il delitto di Chicago, contando carta, teatro e pellicola, visse pure quattro volte.