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 2017  agosto 10 Giovedì calendario

Gatlin dopo l’oro: «Il mio algoritmo per battere Bolt nella finale che sembrava Frazier-Ali»

Arriva da solo. Senza guardie del corpo. Tuta nera, auricolari che sbucano dal colletto. Eccolo, Justin Gatlin, l’uomo più odiato della Gran Bretagna, ancora dipinto come un imbroglione sette anni dopo la fine della sua seconda sospensione. Quello che ha “osato” battere Bolt nella sua ultima gara. Un guastafeste. Ma anche un uomo aperto che ha accettato di spiegare la sua situazione. I fischi le hanno guastato il piacere di aver vinto? «No. A ripensarci, se il pubblico fosse rimasto in silenzio sarebbe stato più destabilizzante per me. O se mi avesse voltato le spalle, come aveva fatto con noi americani il pubblico greco dopo i 200 dei Giochi Olimpici di Atene, quando il loro favorito (Kenteris) non aveva potuto correre. I fischi hanno solo aumentato la mia motivazione». Non trova che in quelle reazioni ci sia molta ipocrisia? Parecchi atleti presenti sono stati sospesi per doping, ma se la sono presa solo con lei. «Io sono il rivale di Usain e lui ha molti fan che vogliono sostenerlo cercando di destabilizzarmi, lo capisco. Se avessi gareggiato nel salto triplo o nel lancio del giavellotto non mi avrebbe fischiato nessuno». Come hanno reagito i suoi genitori, che erano presenti, e il suo bimbo di 7 anni rimasto a casa? «Mia madre è il prototipo della newyorchese pura e dura. Se l’è presa con tutti quelli che mi fischiavano. “Lei! E lei! E lei!”. Dopodiché è andata a scusarsi con ciascuno di loro dicendo che non aveva l’abitudine di comportarsi così… e ha ricevuto in risposta delle scuse. Quanto a mio figlio, è ancora troppo piccolo. Per ora l’unica cosa che gli interessa è vedere il suo papà in televisione. Ma quando avrà l’età per capire gli spiegherò tutto». Non è stufo di essere sempre visto come il cattivo? «Sì, sono stanco, perché penso di essere un “good guy”. Tanta gente, in tutto il mondo, mi chiede consigli tecnici. Mi mandano i filmati delle loro corse perché li corregga e io rispondo a tutti. La notte dopo la corsa non ho dormito, e non perché stavo festeggiando ma perché stavo rispondendo a 800 sms. Sono fatto così». Bolt si definiva “inarrestabile” e “imbattibile”. «È il padrone della corsa. Certi atleti, al cospetto della sua presenza, si perdono completamente d’animo. Io stesso ho impiegato anni a capire come difendermene e contrattaccare. Ho guardato le sue corse, le ho studiate, ho osservato il suo volto. Dovevo essere pronto il giorno X, prepararmi a tutto, trovare un algoritmo per capire come battere le sue lunghe gambe…». Il fatto di essere in una corsia lontana dalla sua è stato d’aiuto? «Da un punto di vista psicologico, Usain incute rispetto. La sua immagine sprigiona un’energia. È alto 1,96. Davanti a lui ci si sente disarmati, senza armatura né scudo. Lui dirige gli eventi, controlla le tribune. Il pubblico gli procura una tale energia… Allora ho cercato di immaginare il contrario, di dirmi che era solo un essere umano». A sentirla, si direbbe che lei è pronto a chiedergli un autografo. «L’ho già fatto, nel 2013, ai Mondiali di Mosca, ho recuperato una delle sue maglie. Ci manca solo la dedica. Quando chiuderò con l’atletica, voglio ricordarmi tutti i momenti vissuti. Avere la maglia di qualcuno che mi ha aiutato a diventare quello che sono era importante. È come per Muhammad Ali e Joe Frazier: sono molto fiero di entrare nei libri di storia dopo questa corsa epica». Se lei fosse stato al posto di Bolt, avrebbe continuato dopo Rio? «No. Quando uno è un atleta, tutto quello che sogna è di essere il campione olimpionico. Quando ha vinto tre nuove medaglie d’oro a Rio se ne sarebbe potuto andare dicendo: “Grazie ragazzi, sono diventato una star diventando campione olimpico (a Pechino) e me ne vado come campione olimpico».