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 2017  agosto 10 Giovedì calendario

Come aiutarli a casa nostra

È ora di frenare l’isteria collettiva che divampa sul tema dei migranti e guardare alla realtà. Anche con una pulizia lessicale che aiuti a raffreddare gli animi ed evitare reazioni scomposte. L’insistenza ossessiva sull’“emergenza” prodotta da “sbarchi” di una quantità “debordante e ingestibile” di migranti che “invadono” il territorio innesca un clima di ansia collettiva e focalizza l’attenzione su questo problema, come fosse l’alfa e l’omega della nostra vita pubblica. Ma di cosa stiamo parlando, quando si strilla di emergenza? Guardiamo ai numeri con razionalità. Le cifre qui riportate provengono dalla fonte ufficiale più accreditata a livello internazionale, l’Organizzazione per le migrazioni delle Nazioni Unite (Oim). Partiamo dall’inizio della crisi, dal 2015. In quell’anno arrivarono in Europa più di un milione di persone, in gran parte dalla Siria. Di queste, 857.363 entrarono in Grecia. Un Paese tre volte più piccolo dell’Italia, sei volte meno popoloso e più debole economicamente ricevette in un anno tanti migranti quanti l’Italia ne ha accolti in dieci. E nel solo mese di ottobre ne entrarono più di 200.000. (Per non dire dei quasi due milioni e mezzo che vagarono tra Serbia, Ungheria, Slovenia, Croazia e Macedonia). Noi italiani abbiamo perorato la causa greca e balcanica in sede europea dichiarandoci disposti ad accogliere la nostra parte di rifugiati e richiedenti asilo? Sarebbe interessante saperlo visto che ora protestiamo contro l’insensibilità (reale e deprecabile) di tanti Paesi Ue per la riallocazione dei migranti. Abbiamo fatto la nostra parte allora, così da avere le carte in regola oggi? Veniamo ai nostri giorni. L’anno scorso i numeri sono cambiati grazie all’accordo con la Turchia (sulla cui gestione è calato il silenzio): nel 2016 sono precipitati gli arrivi in Grecia (176.906) e saliti in Italia (181.436); non una grande differenza. A luglio di quest’anno siamo a 83.752 in Italia e “solo” 10.679 in Grecia. Se poi ci confrontiamo con i Paesi del nostro livello, occorre ricordare che tra 2015 e 2017, secondo il Destatis (Agenzia statistica del governo federale tedesco), sono arrivati in Germania quasi due milioni di stranieri per i quali il governo ha stanziato, nel 2016, 20 miliardi di euro. Con il motto volontaristico e generoso «ce la faremo», Angela Merkel ha allargato le braccia e rintuzzato timori e critiche. E non è arretrata di fronte agli anti- immigrati dell’Afd. Il confronto internazionale sulle cifre dei flussi migratori degli ultimi anni rende meschine le nostre lamentele e disgustose le polemiche salviniane sull’invasione. Anche le cronache di questi giorni affliggono. Invece di valorizzare la nostra meritoria opera di salvataggio in mare ci buttiamo in insensate diatribe sulle Ong. Queste organizzazioni, come dice il loro acronimo, sono “non-governative” e cioè non-dipendenti dallo Stato, anche se devono sottostare, come chiunque, alle leggi. Ma attenzione: dietro alla richiesta di adeguarsi alle norme si nasconde spesso la tentazione di ridurle al servizio dello Stato o di mettere loro la museruola. Evitiamo di trasformare le Ong in organizzazioni non-grate. Inoltre, se riduciamo l’operatività delle Ong nel Mediterraneo rischiamo che al prossimo, drammatico, naufragio la responsabilità ci venga addebitata. Il nodo della questione migranti riguarda il “dopo”: cosa facciamo di coloro che arrivano? Di questo occorre parlare. Quanto impieghiamo a identificarli? Quanto a controllare il loro status di rifugiati? Cosa succede quando escono dai luoghi di identificazione? Quali attività possono/devono svolgere per evitare di vederli bighellonare ai margini delle città (vero focolaio di insofferenza e ostilità nella popolazione)? Quanti corsi di italiano sono stati istituiti? Invece di perderci in risibili cacce alle streghe proviamo anche noi a dire “ce la faremo”. Ad avere un po’ di orgoglio e fiducia nelle nostre capacità, senza mendicare ricollocamenti in giro per l’Europa. Discutiamo di come gestire, in una prospettiva di lungo periodo e non emergenziale, i nuovi arrivati invece di cedere alla retorica sovranista brindando alla riduzione degli sbarchi – cioè, evidentemente, dell’”invasione”.