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 2017  luglio 30 Domenica calendario

Nitti , un lucano dal gusto atlantico

Francesco Saverio Nitti, l’uomo politico che ha rappresentato la punta più avanzata del riformismo liberale italiano, non è mai riuscito a guadagnare uno spazio adeguato nel panorama storiografico. Nato nel 1868 nella poverissima Basilicata, Nitti si trasferisce adolescente a Napoli, dove si afferma alla fine dell’Ottocento come economista, prima di diventare deputato, ministro e infine presidente del Consiglio nel 1919. Un percorso straordinario – specie se si pensa che stiamo parlando del figlio di una contadina analfabeta – che conferma le non comuni qualità dell’uomo. Nitti però è ancora oggi una figura difficile da collocare. Non è l’intellettuale prestato alla politica, né il politico che «fa l’intellettuale», non è neppure il mediatore tra liberismo e statalismo come è stato interpretato sino ad oggi sulla base della biografia nittiana scritta da Francesco Barbagallo trent’anni fa. Per comprendere l’attività di governo di Nitti bisogna far riferimento alla definizione che ne ha dato Antonio Gramsci: la «filosofia dell’azione», cioè la teoria che innerva l’azione politica. Di conseguenza per studiare lo statista lucano bisogna tenere sempre insieme storia della cultura e storia politica.
Su questi binari si muove Michele Cento nel volume Tra capitalismo e amministrazione (edito dal Mulino come pubblicazione dell’Istituto italiano per gli studi storici): ci restituisce un Nitti inedito, protagonista di una «rivoluzione liberale» ante litteram, che assegna al conflitto sociale portato dal movimento operaio una funzione costituente tale da caratterizzare il nascente Stato amministrativo italiano secondo un indirizzo sociale. In altri termini, solo il conflitto può alimentare lo sviluppo della legislazione sociale all’interno di uno Stato che non solo non ha mai favorito gli operai e i lavoratori, ma ha maturato, scrive Nitti, «una vera prevenzione contro di loro».
Qui Nitti recupera, in modo originale, la cultura del conflitto che il liberalismo italiano aveva già espresso, in termini però esclusivamente giuridici, con i governi Cairoli-Zanardelli, poi sconfitta e sepolta dalla stagione della neutralizzazione amministrativa del trasformismo di Depretis e Crispi. In Nitti però il riformismo conflittuale ha ben altro spessore, facendo riferimento a un’idea di modernità industriale che si presenta come un sentiero largamente originale nel panorama politico-culturale italiano.
Cento rintraccia le radici di questo sentiero in quella «comunità atlantica di discorso» che tra XIX e XX secolo sta operando una riscrittura del liberalismo classico. È cioè la frequentazione nittiana con i new liberal e i fabiani britannici, i socialisti della cattedra tedeschi, i solidaristi francesi e gli istituzionalisti statunitensi che consente di comprendere la formazione di un liberalismo che ripudia l’individualismo spenceriano, dialoga con il socialismo e punta a governare l’avvento simultaneo di capitalismo industriale e società di massa. Non si tratta però di statalismo, poiché Nitti auspica che le riforme non siano calate dall’alto, ma siano «fatte non solo per il popolo, ma mediante il popolo». E neppure di riformismo paternalista, ma, come scrive Cento, di un «liberalismo societario», ovvero «un’ideologia e una pratica politica che “assorbe” i mutamenti sociali e ad essi si adatta» per realizzare una «cooperazione ordinata e cosciente».
In questo senso, Nitti è l’esponente italiano di un liberalismo atlantico che punta proprio a superare l’antitesi tra liberismo e statalismo e a far saltare le opposizioni tipiche del liberalismo classico: i n primis quella tra pubblico e privato, ovvero tra Stato e società. Nitti non è però solo il passivo divulgatore di un pensiero nato oltralpe, ma è parte integrante del network transnazionale di intellettuali, come dimostrano sia la circolazione dei suoi scritti, recensiti proprio dai principali rappresentanti del liberalismo atlantico, sia i suoi interventi su influenti riviste internazionali.
Da questa operazione è emersa una svista di Federico Caffè che, curando uno dei volumi dell’Edizione nazionale delle opere di Nitti, ha causato un equivoco non da poco nella storiografia italiana. Nella prolusione inaugurale del corso di economia politica tenuto da Nitti nel 1893 a Napoli, Caffè ha letto un riferimento a Taylor come un omaggio al celebre ingegnere americano. In realtà, l’opera a cui Nitti fa riferimento, Modern Factory System, non è stata scritta da Frederick W. Taylor, ma da un oscuro ispettore del lavoro britannico, Richard Whately Cooke-Taylor, che intendeva valorizzare l’impatto positivo del movimento operaio britannico sulla legislazione di fabbrica inglese. La svista ha ingenerato diverse incomprensioni, a cominciare dalla tesi sostenuta da Silvio Lanaro di una precoce infatuazione nittiana per il taylorismo, che ne faceva il simbolo di un progetto «modernizzante e autoritario».
Ciò non significa che Nitti non abbia nel corso del Novecento ridimensionato il suo originario slancio democratico, senza tuttavia dissiparlo del tutto. Il cuore dell’analisi nittiana si sposterà sempre più dalla funzione costituente del conflitto all’organizzazione sociale della produzione, ritenuta il vero solvente delle contraddizioni che innervano il capitalismo italiano, a partire dalla povertà di capitali e dalla scarsa produttività. Per correggerne le storture Nitti progetta delle istituzioni amministrative che incarnano la sintesi tra pubblico e privato teorizzata dal liberalismo atlantico. Si tratta di quelle che Cento definisce «amministrazioni in appalto», ovvero enti di diritto pubblico, nominalmente di proprietà dello Stato ma gestiti secondo criteri privatistici, che ridisegnano la struttura amministrativa. Ad esse Nitti demanda il compito di raccogliere e valorizzare capitali, sia per potenziare l’apparato produttivo italiano, sia per finanziare riforme sociali. Anche qui si valorizza la dimensione atlantica in cui questo tipo nuovo di amministrazione si inserisce: da un’attenta ricerca all’Archivio centrale dello Stato emerge infatti, per fare un solo esempio, come per modellare l’Istituto nazionale assicurazioni, Nitti si rifaccia ad analoghi progetti attuati in Wisconsin e perfino in Nuova Zelanda. Le invenzioni burocratiche di Nitti non tradiscono quindi la sua rivoluzione liberale, ma semmai la realizzano attraverso un tentativo di dare forma organizzata al capitalismo italiano sulla base, da un lato, della lezione dei Paesi più avanzati dal punto di vista dello sviluppo economico, e, dall’altro, delle esigenze specifiche dell’economia e della società italiane. Quel tentativo sarebbe tuttavia fallito per via delle tensioni troppo aspre e in definitiva ingovernabili che scuotono il Paese durante il «biennio rosso».
Il volume si chiude con una lettera del 1923 in cui Nitti esprime al vecchio amico Benedetto Croce la sua convinzione che «l’Italia sarà democratica o non sarà». Impossibile non leggervi un triste presagio per chi, da lì a poco, avrebbe dovuto lasciare l’Italia per sfuggire alla violenza fascista.