Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  luglio 17 Lunedì calendario

Ricucci, addio jet set. «Dopo mesi in carcere con Marra e Romeo porto mamma al mare»

ROMA Nel torrido luglio di Roma, spunta Stefano Ricucci. «E sì, sono uscito. Dieci mesi e mezzo: 20 luglio-31 maggio». Come spesso accade nella cabala carceraria, proprio come dieci anni fa l’ex “furbetto del quartierino” (il copyright è suo) si è lasciato alle spalle il portone di Regina Coeli la mattina del 31 maggio. Niente fotografi né cronisti. «Beh, si sa com’è, no? Quando entri ce sta er cinema, invece quando esci... Ma molto meglio così eh, per carità». Dimagrito, riflessivo, in partenza per qualche giorno di vacanza in Sardegna con la madre ottantenne e il figlio Edoardo che ha 24 anni e per stare vicino al padre durante quest’anno di detenzione ha dovuto rinviare la laurea in economia. Ricucci accetta di conversare con “Repubblica”. A una condizione: che non si entri nel merito della vicenda giudiziaria e processuale che un anno fa lo ha riportato dietro le sbarre per fatture false («i miei avvocati non vogliono, stanno studiando gli atti e ripercorrendo tutta la vicenda, al momento opportuno comunicheranno ciò che dovranno: aspettiamo che i giudici fissino la prima udienza»).
Come ha vissuto questo periodo in carcere?
«È un carcere. Ma sono sempre stato trattato bene. Stavo nel primo reparto della quinta sezione (dove solitamente sono reclusi i “criminali economici”: manager, imprenditori, finanzieri, faccendieri). La direttrice del carcere, Silvana Sergi, è un’ottima persona, molto capace. La ringrazio».
Chi erano i suoi compagni di cella o di reparto?
«I primi mesi c’era Raffaele Pizza (il faccendiere al centro dell’inchiesta Labirinto della Procura di Roma su appalti in enti e ministeri, fratello dell’ex sottosegretario Giuseppe Pizza – indagato nella stessa indagine – e protagonista dell’intercettazione in cui si vanta di aver fatto assumere il fratello del ministro Alfano alle Poste). Poi sono arrivati Alfredo Romeo (caso Consip, ora ai domiciliari con braccialetto elettronico) e Raffaele Marra (l’ex braccio destro della sindaca Virginia Raggi)».
Tutti lì?
«Sì. È un reparto fatto di quattro celle. I detenuti erano questi. Gente che, effettivamente, è stata molto sui giornali. Che è abituata, o ha dovuto abituarsi, a sentire parlare di sé. Guardavano i telegiornali per seguire gli sviluppi delle vicende giudiziarie in corso. Si giocava anche a carte, ma più che altro, anche loro, come me, passavano molte ore a studiarsi gli atti».
Uno si immagina un ambiente, diciamo, protetto. O no?
«Sicuramente la tipologia di detenuti è diversa. In carcere li chiamano “detenuti mediatici”. Forse è per questo che c’è maggiore attenzione».
Lei in questi anni è stato molto mediatico, i suoi affari sono andati di pari passo coi guai giudiziari.
«Non ho mai cercato i riflettori e l’attenzione dei media. È l’ultima cosa che mi interessa. L’ultima intervista che ho fatto risale a dieci anni fa (sempre con “Repubblica”, giugno 2007, dopo i primi 13 mesi di carcere, ndr). Da tempo ho anche cambiato stile di vita».
Addirittura. Sicuro?
«Basta lussi e vita mondana, basta fidanzate da copertina o in cerca di visibilità. Con quella roba lì ho chiuso. Sto nel mio. Con le uniche due persone che mi sono rimaste e che contano nella mia vita: mia madre e mio figlio. Loro mi sono sempre stati vicini. Tutto il resto viene, va, e passa. E ti lascia poco o niente».
Come trascorreva le giornate in cella?
«Studiando le carte giudiziarie. Ho letto come un matto, ho preparato le mie memorie difensive e incontrato continuamente gli avvocati. In questa storia c’è qualcosa che non quadra ma non ne voglio parlare... non adesso».
«Che fate, m’arrestate pe’ due carte?», disse un anno fa ai finanzieri che la stavano portando a Regina Coeli. Il solito Ricucci.
«Su questo non mi faccia dire niente. Ora parto per il mare. Porto mia madre in Sardegna. Starò un po’ là e un po’ a Roma».
Ha ripreso a lavorare?
«Una settimana dopo che sono uscito, stavo già in ufficio. Ma ormai la mia attività è soprattutto a Londra. Ho smesso da anni di “interessarmi” all’Italia. Come ho già detto in passato l’Italia è ferma: c’è una cosa che sta funzionando in Italia? Non se ne esce».
Chi veniva a trovarla in cella?
«Mia madre e Edoardo. E sono venuti anche dei parlamentari».
Chi?
«Roberto Giachetti e Miguel Gotor. Hanno fatto il giro del reparto, si sono fermati a chiacchierare. In carcere sei mentalmente obbligato a impegnare il tempo, se viene qualcuno aiuta».
Lei si è sempre interessato alla politica, anche negli anni della scalata Rcs e della vicenda Bnl. Ha conosciuto e frequentato politici di destra e di sinistra. Qualcuno doveva anche essere funzionale ai suoi affari. Poi quando l’hanno arrestata hanno preso tutti le distanze: Ricucci chi?
«È vero, la politica mi ha sempre appassionato. Sono uno che vuole capire le cose, quello che succede. Dalla politica alla fine dipende il tuo quotidiano: i servizi, il lavoro, l’economia, la società. La politica decide tutto: dal funzionamento della sanità a quello del sistema giudiziario, se e come accogliere i migranti, come proteggere il Paese dal rischio terrorismo. Perché i terroristi non ci hanno ancora attaccato? Forse perché abbiamo il Papa? Comunque in politica vedo solo un gran casino, peggio di prima».
Qualcuno sorriderà, sentendola.
«Perché? Sono un cittadino: penso, osservo, mi faccio una mia idea. Credo nel mio lavoro e credo sempre nella giustizia: se sbaglio pago, ma se non ho sbagliato è giusto che venga riconosciuto».
Ha seguito le vicende che hanno riguardato le banche, da Etruria alle venete?
«Stendiamo un velo pietoso. Sono la dimostrazione di come funziona il sistema Italia, semmai ce ne fosse bisogno».
Che cosa farà adesso?
«Guardi, penso notte e giorno alla mia ultima vicenda giudiziaria: mi preparo al processo e intanto riprendo in mano la mia vita, i miei affetti».
Ha detto che, a parte sua madre e suo figlio, nessuno le è stato vicino. Perché?
«Perché è così. Quando finisci in carcere la gente che prima ti stava addosso, si allontana. Prima ti cercano, poi ti evitano: diventi appestato. Poi esci e magari ritornano. Così va il mondo».