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 2017  luglio 17 Lunedì calendario

Calvino, i misteri russi del padre

Sorprende trovare la ricostruzione dettagliata di un importante risvolto biografico di Italo Calvino in un sito della University of California: si tratta di un articolo di Stefano Adami, intitolato L’ombra del padre: il caso Calvino, apparso nel 2010 nella rivista «California Italian Studies» e inspiegabilmente caduto nell’indifferenza degli studiosi. Nulla giustificherebbe infatti la necessità di riesumare quel «caso» se non il fatto, impressionante, che dell’articolo di Adami non si trova traccia in nessuna bibliografia calviniana né, tantomeno, in alcuna monografia tra le tante uscite in questi anni.
La vicenda è nota per vie traverse. Per esempio, in una lettera del 20 agosto 1978 allo storico Angelo Tamborra, lo scrittore si dilunga sull’intreccio giudiziario che coinvolse suo padre Mario (1875-1951), ma con molti dubbi che grazie all’indagine di Adami, che ha insegnato a lungo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, attualmente presso l’Università per Stranieri di Siena, si alimentano grazie a una notevole mole documentaria. Un intrigo internazionale che spinse il giovane agronomo Mario Calvino, nel 1909, a lasciare l’Italia per trasferirsi con urgenza in Messico e poi a Cuba, dove avrebbe incontrato la moglie Eva Mameli e dove nel 1923 sarebbe nato Italo: un trasferimento non suggerito, come dicono le biografie, da esigenze professionali, ma da ragioni ben più impellenti.
Il caso scoppia in Italia il 21 febbraio 1908, quando sull’edizione pomeridiana del «Corriere della Sera» compare una notizia da Pietroburgo con la sigla A.A. di Alberto Albertini (fratello del direttore Luigi): è stato sventato per poco un attentato contro lo zar Nicola II e il ministro della Giustizia russo.
Si verrà a sapere che l’organizzatore dell’assalto, catturato dalla polizia, sarebbe un italiano di nome Mario Calvino, corrispondente dei giornali «La Vita» e «Tempo» di Milano. Il 23 febbraio, un telegramma al ministro dell’Interno italiano inviato dal plenipotenziario degli Affari esteri Riccardo Bollati precisa l’imputazione di complicità, chiedendo di identificare il Calvino e di ricostruirne i precedenti. Il «Corriere» dello stesso giorno informa che i partecipanti al complotto, detentori di bombe e revolver, sarebbero tredici e che Calvino, con altri, è trattenuto in carcere. Intanto il questore di Milano informa che Calvino non figura iscritto all’Associazione stampa lombarda ma che è conosciuto dai colleghi come «un giovane serio, di carattere mite, incapace di propositi criminosi». La stampa, in particolare quella socialista, comincia a mobilitarsi a difesa dell’indiziato, accusando di servilismo la monarchia italiana.
È noto che dalla metà dell’Ottocento l’Italia esporta nel mondo una gran quantità di anarchici e di potenziali regicidi, il che giustifica l’allarme immediato lanciato dalle due diplomazie, impegnate per altro dal 1904 a organizzare una delicata missione a Roma dello zar intesa a ratificare la salvaguardia degli interessi italiani in Tripolitania e Cirenaica.
Il 26 febbraio sempre il «Corriere» rivela che Calvino avrebbe confessato di appartenere alla Sezione Settentrionale del Partito socialista rivoluzionario. Il giorno dopo la Corte marziale russa decide per la condanna a morte entro tre giorni, e l’appello dei giornalisti al presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, diventa pressante. Il 29 un inviato dell’ambasciata italiana a Pietroburgo, cavalier Chersi, incontra in carcere il Calvino: durante il colloquio, che curiosamente si svolge in lingua russa, constata che il terrorista (che «cominciò con un violentissimo discorso rivoluzionario») è in possesso di un passaporto italiano rilasciato a Porto Maurizio nel settembre 1906 e attestante il nome di Mario Calvino, agronomo e giornalista nato a San- remo nel 1875.
Nel congedarsi dal diplomatico, il prigioniero lo saluta in un ottimo italiano, ma con «leggera pronuncia romanesca»: «Grazie ugualmente e tante belle cose». Il dispaccio si conclude così: «Ad ogni modo è indubitato che Mario Calvino non è Mario Calvino». Quel giorno stesso verrà impiccato insieme ad altri attentatori.
A Sanremo, il giorno dopo, il questore Rinaldi identifica come residente un tale Mario Calvino, trentatreenne, di professione agronomo, un passato di studi all’Università di Pisa. Deve essere lo stesso Calvino che in quei giorni è intervenuto in un convegno romano di agronomia ed è stato avvicinato dal sottosegretario Santarelli: «La cosa è strana; lei ha lo stesso nome dell’altro Calvino condannato in Russia». La risposta è calviniana: «Strano davvero! Ma di Calvini ce ne sono tanti! Ve ne sono molti in Sicilia e specialmente a Trapani!».
L’indagine si allarga agli amici e ai conoscenti per capire se ci sono rapporti tra il Calvino ligure convegnista a Roma e il Calvino giustiziato, e ben presto si scopre che si è realizzato uno scambio di identità. Come? Perché? Il Mario Calvino di Porto Maurizio, nato il 26 marzo 1875 dal fu Giovanni Bernardo e dalla fu Guagno Assunta, viene messo sotto torchio e il questore Rinaldi raccoglie confessioni tanto contraddittorie quanto inverosimili. In data imprecisata – è il racconto di Calvino – viaggiando in treno tra Genova e Porto Maurizio, ha incontrato alcuni stranieri con i quali ha intrattenuto una conversazione di argomento agricolo: essendo uno dei viaggiatori proprietario di vigneti in Russia meridionale e constatando la competenza del Calvino in fatto di viticoltura, gli avrebbe proposto di andare a lavorare nei suoi terreni lontani.
Preso dall’entusiasmo dell’invito, il giovane botanico avrebbe consegnato un biglietto da visita allo sconosciuto, cercando nei giorni successivi «fresco fresco» di farsi rilasciare il passaporto e di ottenere il visto per la partenza, ma in un secondo viaggio in treno con il sedicente possidente russo evidentemente sarebbe stato derubato del documento che teneva in una tasca della giacca. Distratto dalle «molte occupazioni di una vita attivissima», si sarebbe dimenticato del passaporto, del viaggio e del russo. Insomma, un «contegno strano», una versione fantasiosa e inverosimile, a cui si aggiunge il fatto che il Calvino mostra di non essere al corrente della vicenda giudiziaria di cui parla tutta l’Italia, che ha mobilitato il governo, il Parlamento e i sindacati della stampa. Troppe obiezioni possibili, troppe zone oscure nel suo racconto.
Il 5 marzo da Berna arriva al ministero dell’Interno la lettera di un collaboratore che si dice testimone diretto di un curioso incontro in un ristorante della città elvetica: un gruppo di russi gli ha rivelato che il passaporto del Calvino era stato consegnato spontaneamente nel 1907 dal suo legittimo possessore a un tale russo chiamato Cirillo. E la stessa cosa era accaduta con centinaia di altri documenti italiani elargiti volontariamente dai loro detentori ai rivoluzionari russi.
Intanto il 4 marzo, Guido Pardo, un impiegato del ministero dell’Agricoltura, ha reso noto, in un’intervista, che l’italiano impiccato a Pietroburgo era un matematico e astronomo russo di nome Vsevolod Vladimirovic Lebedintzev, detto Cirillo, arrivato in Italia la prima volta nel 1901. Lo stesso giorno il regio prefetto di Porto Maurizio (oggi Imperia) ha inviato al ministero dell’Interno una nota per comunicare che l’autentico Mario Calvino è il venerabile della massoneria locale, «è di idee avanzate e spirito avventuroso» e ha potuto ottenere la vidimazione del passaporto grazie al viceconsole russo di Sanremo, Augusto Rubino, anch’egli massone, «all’unico scopo di rimetterlo al collega rivoluzionario onde porlo in grado di rientrare in Russia fingendosi di nazionalità italiana».
Intanto il Calvino, sentendosi braccato (viene scoperta una cartolina firmata da lui e da Lebedintzev e inviata a un comune amico, viene accertato che è stato lui a invitare l’amico russo a collaborare al «Lavoro»), si dà da fare come può compiendo frequenti viaggi a Roma per incontrare alti uomini politici, tra cui il ministro degli Esteri, Tommaso Tittoni, e metterli al corrente della sua situazione. Viene interrogato anche il suo compagno di abitazione a Pisa, Olinto Spadoni, il quale fa un ritratto del giovane collega: «Alto, energico, dalla folta capigliatura nera, con una barbetta a punta che gli incorniciava il volto. Avrà avuto 23 anni e rivelava fin d’allora un carattere fiero, ma buono e generoso, capace di qualunque più nobile azione».
Fatto sta che nel gennaio 1909, inseguito dalle informative dei Servizi segreti, Mario Calvino decide di imbarcarsi dal porto di Le Havre, in Francia, verso gli Stati Uniti, da dove raggiungerà il Messico. Lì si impiegherà come agronomo dopo aver «vissuto la rivoluzione di Pancho Villa», come ricorderà il figlio Italo. Nel 1918 Mario sarà a Cuba per dirigere la Stazione agronomica sperimentale di Santiago di Las Vegas, l’anno successivo si sposa e il 15 ottobre 1923 nasce Italo. Il quale, nella lettera del 1978 a Tamborra, non avrebbe nascosto di essere al corrente di quei fatti remoti, narratigli da suo padre per frammenti. Aggiungendo: «Mi proponevo di fargli raccontare dettagliatamente la sua vita avventurosa (che poteva darmi materia per più d’un romanzo!) ma tardai troppo a mettere in atto questo proposito anche perché non abitavo più a Sanremo e lo vedevo di rado. A settantacinque anni fu colpito da trombosi ed era ormai troppo tardi. M’è rimasto il rimorso di non aver raccolto le sue memorie».
Ma Italo conservava tutti i ritagli di quell’intrigo internazionale narrato solo per lettera ai pochi che gli chiesero delucidazioni al riguardo. Mai ne fece argomento pubblico, per pudore o chissà per quali altre ragioni. Scrivendo a Domenico Rea, Calvino avrebbe attribuito la sua laconicità alla «elezione stilistica» e all’indole «in cui si perpetua il retaggio dei miei padri liguri, schiatta quant’altre mai sdegnosa d’effusioni».
«Mio padre, – avrebbe scritto nel 1960 – di famiglia mazziniana repubblicana anticlericale massonica, era stato in gioventù anarchico kropotkiano». In effetti fino al 1909, nei documenti ritrovati da Adami, figura come un pericoloso «anarchico-socialista» e «sovversivo». Nel 1925 il rivoluzionario Mario Calvino aveva ottenuto dal governo fascista il salvacondotto per poter tornare in Italia e a Sanremo, chiamato a dirigere la Stazione sperimentale di Floricoltura «Orazio Raimondo», acquistò la grande Villa Meridiana che sovrastava la città. Nel 1929 la prefettura di Imperia inviò al ministero dell’Interno la richiesta di radiarlo dal registro dei sovversivi: «Egli risulta di regolare condotta morale e politica e fin dall’anno 1926 è iscritto al Partito Nazionale Fascista».
L’ombra del padre su Italo. E l’ombra del padre di Italo anche sui calvinisti.