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 2017  giugno 23 Venerdì calendario

E l’assessore si inventò l’Estate Romana. E italiana

ROMA. C’è una domanda che tra i romani over 50 prima poi salta fuori: tu c’eri al Colosseo, per il Napoléon di Abel Gance? C’ero, c’ero. E se non c’eri, quel settembre 1981, vuol dire che fra te e la Storia c’è incompatibilità. Perché la proiezione di un capolavoro del muto restaurato da Francis Ford Coppola e musicato da suo padre Carmine che, sotto lo schermo dirigeva l’orchestra dell’Opera, è stato il momento più alto – quindi l’inizio della decadenza – dell’Estate Romana.
Era cominciata quattro anni prima, ovvero quarantanni fa, la prima Estate Romana che, di fatto, è stata la prima Estate Italiana, in quanto riprodotta dalle Alpi a Lampedusa e pure all’estero. E già dal primo anno a Massenzio – il 1977, turbolento assai, politicamente – ci pungeva vaghezza di essere protagonisti, oltre che spettatori, di una mutazione culturale. Già: mentre guardavamo a bocca aperta i film epici che segnarono la prima edizione della rassegna (da Senso di Visconti alla maratona del Pianeta delle scimmie, tanto per dare l’idea di come andava inteso l’epico, all’epoca avvertivamo il crepitio genetico che c: avrebbe portato dritti dritti verso le Va canze Intelligenti.
A tentare un amarcord tra gli artefici di quell’evoluzione light, si finisce nella malinconia perché la sorte, (per restart nell’epico), molte anzi tempo aU’Orcc generose travolse alme d’eroi. E di orga razzatori, a partire dall’assessore alla Cultura Renato Nicolini, che se n’è anda to nel 2012. Quando revocava gli antichi fasti delle sue Estati, tornava sempre alla prima sera di Massenzio «Arrivai solo a mezzanotte. C’erano oltre quattro mila persone. Inattese. Mi sedetti su una panca, in fondo, tra una famiglia romana, di quelle ormai estinte, che si era portata da mangiare i rigatoni, e un gruppo di ragazzi che si rollavano uno spinello. Stavano insieme, a guardare lo stesso film». L’alto, il basso; il popolo, l’élite; il centro, la periferia; gli omo, gli etero; l’avanguardia, il nazional popolare. Sta vano meravigliosamente insieme: per analogia, per contrasto, o per qualche altro prodigioso incastro.
C’era voluto Giulio Carlo Argan, primo sindaco postbellico di Roma non democristiano (ma non Pei, Sinistra Indipendente) e grande storico e critico d’arte, a consentire le prove tecniche di coniugazione tra due parole distantissime: estate e cultura. «All’epoca la cultura, in termini politici, non valeva tanto e infatti a Renato, che non aveva ottenuto molti voti, fu dato l’assessorato alla Cultura. Ma Argan si fidò di lui e si innescò il cambiamento» ricorda il critico d’arte Achille Bonito Oliva, che collaborò con Nicolini – storica la mostra Avanguar dia-’IYansavanguardia del 1982 – e che nel 1974 anticipò lo spirito nicoliniano con la sua mostra Contemporanea nei parcheggi sotterranei di Villa Borghese e con l’impacchettamento delle Mura Aureliane di Christo.
Il tempo, a quel tempo,era vago,elastico. E (’humus del l’Està te fecondava anche gli inverni. 0 viceversa. Per esempio, il festival dei poeti di Castelporziano del 1979, con il palcoscenico che crollò per il peso del pubblico poetante (30mila presenze) che voleva rubare la scena ai poeti laureati, era germogliato negli anni precedenti al Beat 72, sto rico locale di Simone Carella, altro demiurgo sul fronte teatrale dell’Estate Romana (trapassato neanche un anno fa), dove l’attuale critico teatrale del Corriere della Sera Franco Cordelli riuniva ogni sabato gli aedi del momento. «Il sabato c’erano le manifestazioni, alcune anche violente, e fra chi aveva partecipato al corteo c’era chi poi riparava da noi, per sentire i poeti».
Questa nota introduce il nocciolo della questione: nella vulgata un po’ semplificante, l’Estate Romana avrebbe restituito la città ai romani che, spaventati dagli eccessi della politica e dal terrorismo avevano piazzato i sacchi di sabbia alle finestre e non mettevano il naso fuori di casa. «È come dire che oggi la gente non va in giro per paura del terrorismo jihadista» obietta Cordelli. «Faceva comodo alla De dire che la gente non usciva, per paura della sinistra. Il fatto è che non c’era quasi niente, soprattutto d’estate. Adesso, invece, ci sono festival ovunque e tutti i giorni. Ma nasce tutto da là».
Per avvalorare la vulgata, Roberto D’Agostino, racconta invece che una volta a piazzale Clodio fu sommerso di sputi dai fascisti perché era vestito strano. «Renato mi chiamò perché con altri amici avevo trasformato un vecchio locale, il Titan, in discoteca rock per compagni che sdegnavano le discoteche. Ma quando, nel 1978, a Villa Ada organizzai Alla ricerca del ballo perduto lasciai perdere il rock e scelsi la musica leggera precedente il 1968. Renato diceva che ogni decennio finisce due anni prima: nel 1978 c’era stato il rapimento Moro e noi dovevamo dare il segnale che la guerra era finita. Non era riflusso, ma una scelta super politica».
All’epoca, Sandro Lombardi dei Magazzini Criminali, compagnia teatrale d’avanguardissima, era solo spettatore delle prime Estati Romane, di cui poi divenne collaboratore. «C’era un’atmosfera meravigliosa, non i cocci di bottiglie di oggi. Io che venivo dal Casentino non sapevo com’era Roma prima di Nicolini, ma la trovavo bellissima e non avevo mai visto una città così viva, la notte. E non avevo neanche mai visto uno scopritore di talenti come Renato».
Su questo punto concordano tutti: Nicolini era un abilissimo catalizzatore di genialità e differenze, l’ultimo situazionista. Ed era anche spiritoso. Ricorda Gianni Romoli, oggi sceneggiatore e produttore: «Massenzio lo organizzavamo noi di tre cineclub, oltre all’Aiace: il Politecnico, il Filmstudio e l’Occhio l’orecchio e la bocca. A Enzo Ungari, il primo che ci ha lasciati, diceva che il suo Filmstudio era i Cahiers du Cinéma, mentre noi dell’Occhio eravamo la Caienna del cinema. Non ci abbiamo fatto una lira, ma ci siamo divertiti tantissimo: ogni anno che montavamo il programma della rassegna ci sembrava di fare un’opera d’arte».
Forse lo era davvero, nonostante le trinariciute e opportunistiche polemiche contro l’effimero nicoliniano, che tanto effimero non doveva essere se stiamo ancora a parlarne. Bonito Oliva taglia corto, con uno dei suoi aborismi: «L’effimero era un spirito, non un servizio urbano».