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 2017  giugno 22 Giovedì calendario

Altafini, grande calciatore e grande telecronista

NEL MIO IDEALE, PERSONALE CATALOGO dei più amati dagli italiani non c’è Lorella Cuccarini e nemmeno le cucine Scavolini (come sosteneva una vecchia pubblicità), ma c’è un ex centravanti di 78 anni, che vinse i Mondiali 1958 con il Brasile (in squadra con Pelé), 4 scudetti, la Coppa dei Campioni con il Milan, ecc. Non è stato solo un grande giocatore, ha anche rivoluzionato con le sue telecronache il linguaggio e lo spirito per raccontare le partite di calcio, rendendoli lievi e divertenti, ma senza perdere in competenza e in filologia futbolistica.
Sono andato a intervistarlo. Ecco José Joao Altafini spiegato ai giovani.
Mi tolga un dubbio. ricordo male io o quando giocava lei non c’era l’uso tra i giocatori di scambiarsi la maglietta alla fine della partita?
«Non c’era. Anzi. Se non riportavi la maglietta al magazziniere, dovevi pagare centomila lire, o quello che era all’epoca, alla società».
E le scarpe da gioco erano tutte rigorosamente di colore nero, vero?
«Ho giocato sempre con le scarpe nere. Scarpe rosa, gialle, fucsia, turchesi come quelle di oggi, non se ne vedevano in giro. Ma anche se ci fossero state, non le avrei messe. Il centravanti porta le scarpe nere».
I modi di esultare contemporanei dopo aver fatto gol le piacciono? «Alcuni mi stanno simpatici, altri no. Mi piace la corsa di Belotti che fa il gallo. Di Belotti mi piace tutto. È il più forte centravanti italiano».
A me ricorda un certo Altafini.
«Non mi paragono con gli altri giocatori. Ognuno ha le sue movenze. Però, forse, qualche movenza in comune Belotti e io ce l’abbiamo».
Mario Sconcerti ha scritto, parlando della Juve di adesso, che la coppia Dybala-Higuain ricorda un po’ la coppia Sivori-Altafini del Napoli 1965-1972. È d’accordo? «Sono contento che lo abbia detto, però non so se è vero. Dissi a Sivori quando andammo al Napoli (lui dalla Juve, io dal Milan): “Facciamo un patto: ti lascio il posto di re di Napoli, però tu mi fai fare i gol”. Siamo stati di parola». Però a Napoli l’hanno chiamata “core ’ngrato” fino a poco tempo fa. Fortunatamente per lei, Higuain passando alla Juve l’ha spodestata nella
classifica dell’ingratitudine.
«Si giocava Juve-Napoli per lo scudetto, a pochi minuti dalla fine segnai il due a uno decisivo per la Juve. I miei amici napoletani non me l’hanno mai perdonato, ma io ho fatto solo il mio dovere. Tra le cose del calcio di oggi che non sopporto, ci sono anche i giocatori che non esultano se segnano un gol alla loro ex squadra. Che maleducazione nei confronti del loro pubblico e del loro nuovo team».
Ha mai fatto il conto di quanto varrebbe oggi sul mercato un centravanti come è stato lei?
«Non lo so e non lo voglio sapere. Un
giocatore non può costare 200 milioni
Il conto l’ho fatto io chiedendo al mio amico procuratore (e molto altro) Carlo Pallavicino. Varrebbe tranquillamente 100 milioni di euro, più di Lewandowski, l’asso del Bayern, per dire.
«Sa che cosa ci diede in premio il Milan quando vincemmo la Coppa dei Campioni, la prima squadra italiana a riuscirci? Un milione di lire, cinquecento euro, capisce?».
All’epoca ci compravi una Fiat 1100, una buona macchina ma niente di più.
«Si rende conto? A fine carriera potevi comprare un bar o una casa e poi restavi senza un soldo. Quelli del Real che hanno vinto la Champions hanno preso di premio un milione e cinquecentomila euro a testa».
Chi era il suo procuratore?
«Procuratore? Siccome faccio fatica a districarmi nelle cose economiche, era mio zio Angelo Marchesoni, il fratello di mamma, che andava a trattare con le società. Se era il caso, batteva i pugni sul tavolo e volava qualche parolaccia. Faceva teatro, era un uomo buonissimo».
Nella sua storia milanista ci sono le due finali di Coppa Intercontinentale 1963 con il Santos di Pelé a Rio, roba di bassa macelleria. Le ricorda come un incubo?
«Le ricordo con rabbia».
Eppure conosceva bene quelli del Santos.
«Certo, eravamo compagni in nazionale».
E vi picchiarono lo stesso.
«Ancora prima che la partita cominciasse, Amarildo (che era brasiliano) si beccò una testata da Ismael». Rivera non giocò quella partita.
«Giocò l’andata a Milano, ma non ritorno e spareggio. Lui e Dino Sani, altro brasiliano, erano malati».
Malati veri?

«Non lo so (ride). Glielo chieda».
I giornalisti scrivevano che lei era un coniglio, che aveva paura.
«Un giocatore che segna 306 gol in carriera e non ha mai giocato con i parastinchi, non è certo uno che ha paura di prendere le botte».
Il nomignolo glielo affibbiò Gipo Viani, manager del Milan, un uomo abile quanto duro, spietato.
«Nella maledetta ultima partita con il Santos, loro ci avevano schiacciato nella nostra area. Ogni tanto un mio compagno tirava un pallone in avanti, alla viva il parroco, come si diceva, e io, solo in attacco, cercavo di tenerlo, ma ero circondato da avversari. Nicolò Carosio, che faceva la cronaca, ebbe la bella pensata di dire due o tre volte: “Il Santos attacca, il Milan si difende, Altafini non si vede”. Alla fine chiesero a Viani: “Come mai abbiamo perso?”. E lui: “Per colpa di quel coniglio di Altafini”. La partita manco l’aveva vista, ripeteva le parole di Carosio».
Gianni Brera raccontava che Viani accusava anche Meazza, forse il più grande di tutti i tempi, di viltà.
«Ha visto? Viani, pace all’anima sua, per difendere la propria poltrona incolpava i giocatori, uno in particolare».
Lei ha giocato partite indimenticabili, ma penso che la più bella sia stata Palmeiras-Santos del 6 marzo 1958. Lei, 19 anni, nel Palmeiras e Pelé,17 anni, nel Santos».

«Fu la partita del secolo».
Lo si dice di tante partite.
«Quella lo fu davvero. Perdevamo 5 a 2 a fine primo tempo e il nostro portiere non volle rientrare in campo, lo sostituì quello di riserva. Con una clamorosa rimonta, siamo andati sul 6 a 5 a 11 minuti alla fine. Lo stadio era una bolgia. Il portiere di riserva crollò di colpo per la tensione e fece due papere colossali all’85esimo e all’87esimo. Perdemmo7a6emorironod’infartodue persone».
Mi permetta di correggerla. Ho riguardato filmati e letto giornali del tempo.
Secondo la “estatistica macabra” più aggiornata, i morti per “sincope cardiaca” provocata dallo “espectáculo pirotecnico” furono cinque. Nemmeno Osvaldo Soriano, il più grande scrittore di pallone (non segue dibattito), avrebbe saputo fare meglio.

«Io segnai due gol, al 64esimo e al 72esimo, portando la squadra sul 5 a 5. Ma non bastarono».
Sui giornali dell’epoca e, perfino, sul referto ufficiale della Federazione brasiliana lei era semplicemente Mazola per la somiglianza con Valentino Mazzola, il capitano del Grande Torino.
«Ancora oggi in Brasile sono Mazola. La prima volta che il figlio Sandro, quindicenne, mi vide ebbe un colpo al cuore. Ero uguale a suo padre».
Lei ha fatto scandalo perché era sposato e si mise con la moglie del suo compagno di squadra Paolo Barison.
«L’adulterio in quel periodo era un affare di Stato, si ricorda il dramma di Fausto Coppi e la Dama Bianca? Io ho avuto molti amici che andavano con la moglie di altri amici, quello è tradimento. Il mio no. Sia il mio matrimonio che quello di Annamaria erano in crisi quando ci siamo innamorati. L’amore è l’amore».
Conosceva Beppe Viola, il grande giornalista sportivo e scrittore di varia umanità?
«Conoscerlo? Ero un amante di Viola. Mi ha insegnato come si fa televisione con ironia. Ho imparato tutto da lui. Non dimentichiamo che lui scriveva testi per Jannacci, per Teocoli, per i comici del Derby. Mi è rimasta nel cuore quella volta che era inviato a San Siro per un derby finito malinconicamente zero a zero. Quando si collegarono per il servizio, Viola disse: “Purtroppo è stata una brutta partita e allora vi faccio vedere un Milan-Inter di due anni fa che fu molto divertente e con un sacco di gol”. Uno che fa una cosa così è un genio».
La seconda voce delle telecronache l’ha inventata lei.
«L’abbiamo inventata io e Luigi Colombo a TeleAltoMilanese seguendo un torneo giovanile per squadre nazionali. Poi ci siamo spostati a Telemontecarlo».
Il suo lessico (parole come golaço), le sue invenzioni (come le citazioni della pagina 94 o seguenti del Manuale del calcio), diventarono virali.
«Golaço è il superlativo di gol. All’inizio, qualcuno fraintendeva. Un signore telefonava ogni volta a Telemontecarlo: “Dite ad Altafini di non dire parolacce”».
Lei ha rivoluzionato lo sport in tv. Prima di lei, a parte Viola, erano tutti seri, drammatici.

«Non lo scriva, ma i telecronisti di ora non li sopporto. Urlano come pazzi: “Palla dentro!”; “Palla fuori!”. Un altro mio maestro è stato Silvio Luiz, telecronista brasiliano.
Una volta ero in Brasile in vacanza e c’era una partita in televisione. Mi sono messo a guardarla. Dopo un quarto d’ora Silvio Luiz ha detto: “Sentite, la partita è talmente brutta che vi racconterò una barzelletta”. Ha cominciato a raccontarla e a un certo punto si è fermato: “Aspettate un attimo che c’è un’azione interessante“. Ha proseguito così interrompendosi continuamente. La barzelletta ha terminato di raccontarla solo al novantesimo e io sono stato lì come un coglione a seguire la parti
ta fino alla fine».
Mi fa la cronaca del suo secondo gol nella finale di Coppa dei Campioni contro il Benfica? Eravate sull’uno a uno...
«Rivera intercetta una palla al centrocampo a Raúl Machado, me la passa con una carezza e io mi involo  verso la porta da solo... Golaço, amisci».