la Repubblica, 23 giugno 2017
L’amaca
Va rispettato il dibattito divertito che ha accolto Giorgio Caproni nei temi di maturità. La letteratura non è pop, la poesia men che meno, non possiamo pretendere che la smisurata utenza social, maturandi inclusi, conosca uno dei nostri poeti più grandi e appartati, e ragioni sul fatto che un tweet (140 battute) potrebbe essere paragonato a un lungo verso, con un capo e una coda. Si sono dunque sprecate le ironie sul cognome, e le perplessità sul fatto che “non era nel programma”, il Caproni, a differenza del Foscolo o del Leopardi. Però qualcuno, magari, ha poi letto quei versi, semplici e amari come l’erba secca.
Ho avuto la fortuna, grazie a una moglie letterata e amici musicisti, di leggere Caproni in pubblico nelle piazze dei paesi dove lui trascorse i suoi ultimi anni (montagna piacentina). Non essendo un attore la dizione era quella che era, e Caproni non è un poeta facile. Ma con l’aiuto del violino e della fisarmonica, delle assonanze tra i luoghi e le parole, delle ventate e delle stelle, tutto è stato capito. Anche il meno istruito, il meno propenso poteva dire, come il suonatore Jones di De André, “sentivo la mia terra vibrare di suoni”. A qualcosa serve, ve lo giuro, la poesia.