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 2017  giugno 23 Venerdì calendario

Pene maggiori per i trafficanti di opere d’arte

C’ è perfino l’agente autorizzato a infiltrarsi, nella nuova legge contro i trafficanti d’opere d’arte. Poi può darsi, chissà, che il diavolo ci abbia infilato un dettaglio non ancora scovato. Ma le nuove norme sembrano segnare finalmente una svolta vera. Purché, dopo essere passate alla Camera, non vengano stravolte al Senato.
Sarà per la scoperta pochi mesi fa che i due quadri di Vincent Van Gogh da cento milioni di euro rubati dal museo di Amsterdam nel 2002 erano finiti a casa di Raffaele Imperiale, un camorrista di Scampia. Sarà per le notizie sugli scambi immondi di tesori archeologici e armi tra i tagliagole dell’Isis e i boss della ‘ndrangheta. Sarà per l’estenuante ma infruttuosa caccia alla «Natività» del Caravaggio trafugata nel ‘69 che per il pentito Salvatore Cancemi sarebbe stata esposta come simbolo di potere in certe riunioni della cupola mafiosa.
Certo è che per la prima volta, sospira sollevato Giovanni Melillo (il Pm che inchiodò il direttore-ladro della biblioteca dei Girolamini Marino Massimo De Caro) il traffico di opere artistiche «è trattato sul piano della criminalità organizzata». Scelta tardiva ma sacrosanta: da anni, infatti, l’Ufficio delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine di Vienna collocava il business dell’arte trafugata al quarto posto nel ranking internazionale della criminalità dopo il commercio di droga, di armi e di prodotti finanziari.
Ed è lì il cuore della nuova legge, firmata da Andrea Orlando e Dario Franceschini e passata a Montecitorio. «Art. 518-quaterdecies. (Attività organizzate per il traffico illecito di beni culturali). – Chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto o vantaggio, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, trasferisce, aliena, scava clandestinamente e comunque gestisce illecitamente beni culturali è punito con la reclusione da due a otto anni». Alla pari dell’associazione a delinquere.
Era da molto tempo che i difensori del patrimonio artistico, le associazioni culturali, tanti magistrati, tanti giornalisti invocavano una sterzata contro l’indolenza, la sciatteria e il complice buonismo con cui venivano trattati quelli che Fabio Isman chiamò in un suo libro I predatori dell’arte perduta. Basti citare tre casi che i lettori del Corriere ricorderanno. Il salvataggio in extremis del favoloso «sarcofago delle Muse» che, trovato da un tombarolo a Ostia Antica, stava per essere devastato dal criminale incolto, deciso a staccare le statuine una dall’altra con un crick da carrozziere per venderle più facilmente. O quello del grandioso monumento funerario con figure di gladiatori di Lucus Feroniae, a Fiano Romano, frazionato in dodici pezzi e sepolto in attesa di un compratore. O ancora la grande statua di Caligola sul trono scoperta nella villa (ancora sconosciuta) dell’imperatore a Nemi e fermata mentre era già in viaggio su un camion verso l’estero. Tre episodi incredibili non solo per lo splendore dei pezzi: nessuno dei delinquenti era finito in galera.
Come si sbracciava a spiegare Paolo Giorgio Ferri, uno dei magistrati più impegnati su questo fronte insieme con i carabinieri e i finanzieri specializzati nel settore, «anche quando è teoricamente prevista la possibilità di arrestare il criminale non c’è però quella di metterlo dentro. A meno che non si sia certi di poter dimostrare, campa cavallo, che il trafficante ha materialmente danneggiato, lui, personalmente, l’opera d’arte che ha in mano». In pratica «se in un negozio rubi un maglione da 19 euro rompendo un sigillo puoi essere arrestato, incarcerato e rischi fino a 10 anni. Se ti prendono col Cratere di Eufronio no».
Troppo basse, le pene previste dal Codice dei beni culturali firmato nel 2004 (ma non è che prima andasse meglio...) da Giuliano Urbani. Troppo basse per mettere le manette, per fare intercettazioni, per disporre indagini speciali con l’uso magari di agenti provocatori in grado di offrirsi come finti acquirenti ai ladri che vendevano pezzi di pregio. Lo sapevano tutti. Tutti. Eppure l’inasprimento delle pene, abbozzato da Giancarlo Galan nel 2011, ha visto cadere la legislatura precedente e arrivare quasi agli sgoccioli l’attuale senza che Monti, Letta e Renzi riuscissero a marcare il punto. Nonostante quel primo disegno di legge fosse passato in commissione all’unanimità prima d’impantanarsi nelle sabbie mobili. Ferme lì, per anni, con quelle pene ridicole. Esempio? Chi «procede al distacco di affreschi» rischia, si fa per dire, da 775 a 38.734 euro e 50 centesimi di multa. Il costo di un quadretto minore…
Le nuove regole no, non sono così tolleranti. Qualche punto? «In caso di condanna o patteggiamento per uno dei delitti previsti dal nuovo titolo, è sempre ordinata la confisca penale obbligatoria». Il furto di beni culturali «è punito con la reclusione da due a otto anni». Con aggravanti fino ad altri cinque anni se si tratta di «beni culturali di rilevante valore».
Bastonati i tombaroli: «È punito con l’arresto fino a due anni chi è colto in possesso di strumenti per il sondaggio del terreno o di apparecchiature per la rilevazione dei metalli, dei quali non giustifichi l’attuale destinazione, all’interno di aree e parchi archeologici…». Ma anche gli spregiudicati commercianti internazionali: «Chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta beni culturali provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farli acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da tre a 12 anni». Chi si mette di traverso alle indagini su opere rubate o cerca di «ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, è punito con la reclusione da 5 a 14 anni». Di più: la pena aumenta «quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale». Che poi i reati siano commessi fuori dall’Italia non conta più: «Le disposizioni si applicano altresì quando il fatto è commesso all’estero in danno del patrimonio culturale nazionale». E avanti con le intercettazioni, avanti con gli infiltrati…
Esulta Dario Franceschini: «Con queste nuove norme l’Italia si pone all’avanguardia nel mondo». Esagera? Forse no, forse è davvero una svolta, per un Paese come il nostro esposto da decenni al saccheggio. Resta quel dubbio sul Senato che già aveva inghiottito nel nulla la riforma precedente nonostante a parole fossero tutti ma proprio tutti d’accordo. Passerà, stavolta? O riemergeranno quei dubbi sottili e cavillosi in grado di gettar polvere in ogni ingranaggio?