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 2017  giugno 22 Giovedì calendario

La rabbia mediterranea di Togo

Maggio 1981. Presentato in catalogo da Paolo Volponi, Togo (pseudonimo di Enzo Migneco) espone, all’Annunciata di Milano, una quarantina di olî in cui si registra una sorta di debito con i fauves e con Henri Matisse, soprattutto per un certo gusto del colore (blu, verde) capace di emanare magici lucori. Nonostante siano trascorsi oltre trentacinque anni, quella pittura sonora, sensuale e sontuosa si ritrova, adesso, nella rassegna (sino all’8 luglio) al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, dedicata al pittore siciliano.
Sì, perché anche se ha visto la luce a Milano nel 1937, Togo è isolano dalla testa ai piedi. Non solo perché i suoi erano nati nella città distrutta dal terremoto del 1908 e vi sono tornati con Enzo bambino di dieci anni, ma anche perché l’artista ha respirato in famiglia i primi coloranti acidi e ha vissuto per vent’anni nel Mediterraneo assimilandone forza, canto, bellezza e riuscendo, persino, a sfuggire agli incanti delle sirene per non fare una brutta fine. E che, come Odisseo, ci sia riuscito lo dimostrano le ottanta primavere raggiunte, per festeggiare le quali la città dello Stretto gli ha dedicato questa mostra di paesaggi mediterranei. In catalogo, presentazione di Patrizia Danzè che, per fortuna, inquadra e spiega il percorso di Togo, piuttosto che perdersi nei paralipomeni della batracomiomachia, come fanno molti critici che, facendo finta di presentare gli artisti, parlano di sé e di quanto sono bravi.
Paesaggi mediterranei, si diceva. Proprio in quest’ultimo lustro, Togo ha ripreso a dialogare con la natura, senza sosta e con un ritmo che talvolta rischia di diventare ossessivo. Soprattutto quando parla con il mare. «C’è il mare, ossessione nella mente di Togo – scrive la Danzè – e ricordi azzurri e arancio di un pittore che deforma e riplasma, allunga e taglia, arrotonda e tende, ispessisce e assottiglia, percorre con ghirigori e zig-zag abissi di turchino, furie di mare verderame, cieli gonfi di sanguisughe, nebbie azzurrine: un caos dionisiaco pulsante sotto una superficie apollinea di smagliante cromatismo» (viene in mente la prosa poetica di Raffaele Carrieri).
Tutto questo lo abbiamo visto nelle ultime mostre di Togo, fra cui quelle alla San Carlo di Milano, allo Studio 71 di Palermo, alla Fondazione Mazzullo di Taormina, alla Scogliera di Caorle, a Palazzo Martinengo di Brescia, al Centro Malraux di Algeri. Paesaggi, paesaggi e ancora paesaggi. Che non contemplano la figura umana. È normale che Togo, alla sua età, tenti di recuperare l’infanzia, di fermare la memoria, di immergersi in momenti onirici per risuscitarli. Per farlo, la sua arma è il colore puro. Certo la sua geografia non è presente in alcun atlante ma l’invenzione riscatta e porta ad esiti sorprendenti.
L’operazione più interessante? Riprendere ed approfondire una tematica che gli proviene da artisti come Giuseppe Migneco (zio paterno, motivo per cui Enzo ha preferito firmarsi con lo pseudonimo di Togo) e Renato Birolli e da qualche altro artista di «Corrente», a sua volta derivata dai postimpressionisti e da Van Gogh.
Togo appartiene a quella schiera di pittori che, per un fatto generazionale, si sono trovati spiazzati nel mercato dell’arte. Troppo giovani al momento del boom; coinvolti, una volta trovata la loro strada, nelle difficoltà economiche che hanno investito le attività artistiche in genere. Da qui una sorta di rabbia che essi si sono portati dietro e che, talvolta, è stato uno dei motori che li ha spinti a creare.