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 2017  giugno 22 Giovedì calendario

Aramco, in vendita il gioiello da 2mila miliardi

Il nuovo principe ereditario intende fare quello che nessun reggente saudita aveva voluto, od era riuscito a fare: guarire l’Arabia Saudita dal pericoloso morbo della petro-dipendenza attraverso la diversificazione dell’economia.
Giovane, anzi giovanissimo per un Paese come l’Arabia Saudita, abituata ad essere governata da monarchi ultrasettantenni se non ottuagenari, Mohammed bin Salman, 31 anni potrebbe finalmente scuotere la più ricca e forse apatica economia del mondo arabo. Il padre, Re Salman, di anni ne ha 82 ed è seriamente malato.
Conosciuto con l’acronimo Mbs, Mohammed crede fermamente nella sola ricetta possibile per rilanciare l’economia saudita e guarirla dalla petro-dipendenza: il processo di privatizzazione e la diversificazione dell’economia. E per farlo l’ambizioso principe si è assunto, nel 2016, il non facile compito di guidare la quotazione della ricchissima compagnia petrolifera di Stato, la Saudi Aramco, già nel corso del 2018.
Si tratterebbe della quotazione più grande nella storia delle Borse mondiali. Mbs intende collocare sul mercato il 5% di Aramco aspettandosi di rastrellare 100 miliardi di dollari. I ricavi confluirebbero in un fondo sovrano per poi essere reinvestiti in “Vision 2030”, il faraonico piano annunciato da Mbs l’anno scorso per rilanciare, trasformandola radicalmente, l’economia saudita.
Le priorità per Mbs sono la riduzione della presenza statale nell’economia, il sostegno al settore privato e la creazione di posti di lavoro per i giovani. I settori su cui intende puntare per alleviare la dipendenza dal greggio sono la tecnologia, la Difesa, le energie rinnovabili e il turismo.
Saudi Aramco fa gola a molte società. Come potrebbe essere altrimenti? Produce 10 milioni di barili al giorno (oltre il 10% dell’output mondiale), ha in dote le riserve più grandi del mondo (261 miliardi di barili), e costi di estrazione davvero bassi.
Le aspettative saudite peccano però di ottimismo: arrivare ad una capitalizzazione del suo gioiello di oltre 2mila miliardi di dollari. Diversi analisti si attendono non più di 1.500 miliardi. Due giorni fa il Financial Times ha stimato un valore tra 880 e 1.100 miliardi.
Sarà poi importante comprendere quale forma assumerà la compagnia in Borsa. Quali asset saranno collocati. La Aramco è un produttore di petrolio, un produttore di gas, è parte del fondo del welfare governativo, parte del fondo sovrano per gli investimenti. Ma, nonostante i dubbi, la quotazione appare inevitabile.
D’altronde i tempi delle vacche grasse, quando i prezzi del greggio si mantenevano sopra i 100 dollari per anni e la monarchia saudita galleggiava su una mare di petrodollari, sembrano definitivamente tramontati. Il crollo del barile, a cui Riad ha largamente contribuito nel vertice Opec di fine 2014 con la decisione di non tagliare la produzione, si è ritorto sui conti sauditi. Dai generosi surplus che arrivavano senza sforzo, la monarchia si è ritrovata con deficit di bilancio sempre più ingombranti (nel 2015 quasi 100 miliardi di dollari, 79 nel 2016).
Per non ricorrere a soluzioni drastiche, azzerando i sussidi e i privilegi, i vecchi monarchi hanno preferito attingere generosamente dalle enormi riserve in valuta pregiata. Erano più di 700 miliardi di dollari nel 2011. In maggio, secondo l’Autorità monetaria Saudita, sono scese a 495 miliardi. Una drammatica erosione. Anche se le più ottimistiche previsioni del ministero saudita delle Finanze prevedono un aumento del Pil del 2% nel 2017, sempre che siano attuate riforme chiave incluse nella strategia “Vision 2030”, la crescita del Pil dovrebbe ulteriormente contrarsi nel 2017 a meno dell’1% (per l’Imf solo lo 0,4%), il dato più basso da oltre 4 anni. E per la prima volta da 11 anni, in marzo e in aprile, i prestiti del settore bancario al settore privato si sono ridotti. Per un Paese che ricava dalle vendite di greggio il 90% dell’export complessivo era prevedibile. Ora, tuttavia, è arrivato il momento di avviare in modo deciso quelle riforme strutturali da tempo annunciate. Dopo tre anni consecutivi con il petrolio sotto i 50 dollari (media), e tre anni di crescenti deficit di bilancio, anche la monarchia saudita non ha potuto fare altro che imitare i Paesi occidentali: dare il via alla “spending review”. Con una vigorosa sforbiciata ai salari ministeriali, un drastico taglio delle indennità, cancellando i bonus, riducendo i sussidi, imponendo per la prima volta le tasse. Un’eresia per l’esercito di dipendenti pubblici – 2/3 della forza lavoro – abituato a generosi benefit.
Sul fronte finanziario il Public Investment Fund sta investendo 45 miliardi di dollari in una partnership con la giapponese SoftBank al fine di lanciare un fondo tecnologico. L’anno scorso ha anche sborsato 3,5 miliardi di dollari per una quota di Uber. Ma è ancora troppo poco. Il prezzo del petrolio resta debole. L’offerta mondiale è abbondante, così come lo sono le scorte. Difficile che i prezzi si risollevino presto. Riad deve accettare che non può più dipendere solo dal greggio. Ed il giovane principe ereditario ha le carte in regola per percorrere questa strada, finora sconosciuta.