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 2017  giugno 22 Giovedì calendario

Daniel Day-Lewis, l’addio al cinema della star che cercava la perfezione assoluta

Con l’insostenibile peso della perfezione, Daniel Day-Lewis, 60 anni, londinese, figlio del poeta Cecil e dell’attrice Jill Balcon, ormai ex-attore, dopo il comunicato dai toni imperativi diffuso l’altra sera, deve aver fatto i conti tutta la vita. Un fardello pesante, per nulla alleviato né dai premi numerosi né dai giudizi estasiati di critici e spettatori del mondo.
L’impressione è che, da quando il suo talento ha preso il volo dopo gli studi nella progressista Bedales School, dopo i corsi al «British Old Vic Theatre», dopo l’esordio in Domenica, maledetta domenica Day-Lewis abbia ingaggiato una feroce lotta con se stesso. Una gara che non lo lasciasse mai riposare sugli allori della famiglia colta, dell’aspetto fisico attraente, dei tanti, fortunati, incontri professionali. Così, dopo ogni affermazione (Daniel Day- Lewis ha vinto 3 Oscar, nell’89 per Il mio piede sinistro, nel 2007 per Il petroliere, nel 2013 per Lincoln) bisognava ricominciare daccapo, con l’obiettivo di essere sempre migliori, anzi, «il» migliore.
Le strategie potevano essere le più varie. Chiudere una storia d’amore con un fax, come fece nel ’95 rispondendo alla compagna di allora Isabelle Adjani che gli annunciava di essere incinta. Oppure scegliendo di ritirarsi dalle scene per diventare ciabattino in una bottega di Firenze. Decisione, questa, presa alla fine degli Anni 90, dopo aver incantato le platee del globo grazie all’Ultimo dei Mohicani e all’Età dell’innocenza. Quasi un dispetto. E, soprattutto, una contraddizione. La star alla perenne ricerca di massima privacy compie gesti plateali che, puntualmente, accendono la curiosità dei media.
L’unica spiegazione di questi comportamenti dissonanti (compreso l’ultimo, visto che si può anche decidere di smettere di recitare senza per forza dichiararlo urbi et orbi) sta in quella mania di assoluto: «Sono state dette un sacco di sciocchezze su come mi preparo per un film – spiegava alla Berlinale presentando Il Petroliere -. La verità è una, credo che per raccontare la vita di un’altra persona sia necessario andare fino in fondo, accettando di viverla anche se è diversissima da quella che si sceglierebbe per se stessi. Questo comporta delle scelte.  Io, per esempio, ho bisogno di appartarmi, di dedicarmi completamente al mio lavoro».
Il matrimonio con la figlia di Arthur Miller, Rebecca, sembrava rispondere a questo tipo di esigenze creative offrendo a Daniel Day-Lewis il contesto ideale per rigenerarsi continuamente. Eppure nemmeno quel perfetto paradiso intellettuale (i due hanno realizzato insieme The ballad of Jack and Rose) è bastato a placare l’ansia da prestazione di uno degli attori più acclamati: «Sicuramente – spiegava sempre a Berlino – John Huston è stato per me fonte d’ispirazione importantissima. Recitando nel Petroliere ho pensato al suo personaggio in Chinatown, e per capire la febbre che animava i cercatori di petrolio mi sono rifatto alla mia febbre. La recitazione».
Con lo stesso regista di quel film, Paul Thomas Anderson, il divo Day-Lewis sta concludendo le riprese di Phantom Thread, ambientato nel mondo della moda Anni 50, e girato a quattro anni da Lincoln. A meno che i motivi personali di cui parla il comunicato d’addio non riguardino questioni di salute, un ripensamento è sempre possibile. A patto che Day-Lewis si accontenti, finalmente, di essere ogni volta il più bravo.