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 2017  giugno 22 Giovedì calendario

Macron: perché la mia elezione fa rinascere l’Europa

Nei giardini dell’Eliseo Emmanuel Macron espone le linee di politica europea e internazionale alla vigilia del suo primo Consiglio Ue a Bruxelles. Il presidente francese dialoga con il Corriere e altri sette giornali europei per un’ora e 20 minuti, scarabocchiando, ogni tanto, piccole stelle sul foglio bianco davanti a lui. È la sua prima intervista da quando i francesi lo hanno eletto. Evento che lui definisce «l’inizio di una rinascita francese e spero europea». Accanto al tricolore e alla bandiera blu con le dodici stelle gialle, Macron attribuisce all’Europa la missione storica di «difendere la libertà e la democrazia» minacciate da demagogia e estremismi. Una missione da adempiere puntando sul rilancio della coppia franco-tedesca – «altrimenti l’Europa balbetta» – e sulla fine «di una forma di neoconservatorismo importata in Francia da 10 anni. La democrazia non si costruisce dall’esterno senza coinvolgere i popoli, la guerra in Libia è stata un errore».
La Francia può incarnare una nuova leadership in Europa?
«La leadership non si assume per decreto, si costruisce coinvolgendo altri Paesi e attori e viene riconosciuta alla luce dei risultati ottenuti. Sarebbe presuntuoso dire sin da ora che la Francia esercita una nuova leadership europea. La vera questione è l’obiettivo della nostra azione, e il punto di partenza è la crisi che attraversano le democrazie occidentali. Quando guardiamo il pianeta oggi, che cosa vediamo? Un’ascesa delle democrazie illiberali e degli estremismi in Europa, il risorgere di regimi autoritari che mettono in discussione la vitalità democratica, e gli Stati Uniti d’America che in parte si ritirano dal mondo. Le crisi si moltiplicano in Medio Oriente e nel Golfo, le ineguaglianze si aggravano ovunque».
Da dove provengono queste instabilità?
«Non c’è una sola causa. Nascono in parte dalle disuguaglianze profonde provocate dall’ordine mondiale, e dal terrorismo islamista. A questi squilibri si aggiunge quello del clima. Quelli che pensano che la lotta contro il riscaldamento climatico sia un capriccio si sbagliano profondamente. Il punto fondamentale quindi non è sapere se esiste o no una leadership francese, se gonfiamo il petto più degli altri. La questione è difendere il nostro bene comune, ovvero la libertà e la democrazia, e capire come possiamo vincere questa battaglia di cui l’Europa, ne sono convinto, porta la responsabilità. Perché la democrazia è nata qui. Gli Stati Uniti amano la libertà quanto noi, ma non hanno il nostro gusto per la giustizia. L’Europa è il solo luogo al mondo dove le libertà individuali, lo spirito democratico e la giustizia sociale si sono uniti fino a questo punto».
Qual è il suo progetto per rifondare la zona euro? E come convincere la Germania?
«Se non abbiamo coscienza della vera sfida, possiamo continuare a passare notti intere a interrogarci sulla sede della prossima agenzia europea o il modo in cui sarà speso questo o quel budget… Ci collocheremmo allora fuori della storia. Non è questa la mia scelta, e neanche quella di Angela Merkel. (…) La Francia non avrà alcuna capacità motrice se non fa un discorso chiaro e lucido sul mondo, ma neanche se non rafforza la sua economia e la sua società. Ecco perché ho chiesto al governo di dare il via alle riforme fondamentali che sono indispensabili per la Francia. Ma la forza degli uni non può nutrirsi a lungo della debolezza degli altri. La Germania, che si è riformata una quindicina di anni fa, si rende conto oggi che questa situazione non è più sostenibile. Vorrei tornare allo spirito di cooperazione che esisteva un tempo tra François Mitterrand e Helmut Kohl. Non si va a un Consiglio europeo senza avere una posizione comune tra Francia e Germania. Altrimenti l’Europa balbetta. La chiave per ripartire è un’Europa che protegga».
Perché la «protezione» è così importante?
«Perché in tutte le nostre società le classi medie sono attraversate dal dubbio. Hanno l’impressione che l’Europa si faccia malgrado loro. Bisogna creare un’Europa che protegga, dotandoci di una vera politica di difesa e di sicurezza comune. Dobbiamo essere più efficaci davanti alle grandi migrazioni, riformando profondamente il sistema di protezione delle nostre frontiere, la politica migratoria e il diritto di asilo. Il sistema attuale fa portare solo su alcuni Paesi tutto il peso e non potrà resistere alle prossime ondate migratorie. Non ci può essere un approfondimento istituzionale finché non avremo restaurato la coerenza dell’Europa. Ci vuole un’integrazione più forte della zona euro prima di passare alla tappa successiva. Per questo difendo con vigore l’idea di un budget della zona euro, dotato di una governance democratica. È il solo modo di ricreare una convergenza tra le nostre economie e i nostri Paesi. Dobbiamo agire sul pilastro della responsabilità e su quello della solidarietà, insieme La mia sensazione è che la Germania non abbia un blocco su questo».
L’Europa si presenta oggi in ordine sparso, a Est molti Paesi hanno scelto dei regimi autoritari. Come gestire un’Europa così divisa?
«Non credo a un conflitto tra Est e Ovest. Ci sono delle tensioni perché i nostri immaginari e la nostra storia recente non sono gli stessi. Non dimenticherò mai questa frase di Bronislaw Geremek, che incontrai una ventina d’anni fa al momento dell’allargamento europeo:”L’Europa non ha chiaro quanto ci deve”. Per la sua generazione, l’Europa occidentale aveva tradito, lasciando che il Muro dividesse il continente. Quando sento oggi certi dirigenti europei, tradiscono due volte. Decidono di abbandonare i principi, di volgere le spalle all’Europa (…). L’Europa non è un supermercato, è un destino comune. I Paesi che non ne rispettano le regole devono trarne tutte le conseguenze politiche. E non è solo un dibattito Est-Ovest. Parlerò con tutti e con rispetto, ma non transigerò sui principi dell’Europa, sulla solidarietà e i valori democratici».
È il momento di rimettere in discussione lo spazio Schengen? Costringere i Paesi che rifiutano i migranti ad accettarli?
«Sono legato allo spazio Schengen che permette la libera circolazione delle persone in seno all’Unione Europea, e che è uno degli elementi costitutivi della nostra cittadinanza europea. Se vogliamo garantire questa libera circolazione, dobbiamo rafforzare i controlli alle frontiere esterne dell’Unione Europea e dare rapidamente tutti i mezzi necessari all’Agenzia europea dei guarda-frontiere e delle guarda-coste. C’è poi la questione dei rifugiati che fuggono da Paesi in guerra, ai quali dobbiamo ospitalità e umanità. (…). E poi i migranti che non hanno diritto all’asilo, che vanno trattati secondo le regole del diritto e con umanità, e riaccompagnati alla frontiera lavorando con i Paesi di provenienza e di transito, lavorando più efficacemente contro le organizzazioni mafiose che sfruttano la miseria umana. (…) Rimediare poi alla situazione grottesca dei”dublinanti”, quelle persone che passano da un Paese all’altro nella speranza di ottenere infine l’asilo».
Dopo la Brexit e l’elezione di Trump, la sua vittoria segna una battuta d’arresto dei populismi in Europa? E il modello Macron è esportabile altrove, per esempio in Italia, che potrebbe essere il nuovo anello debole della catena europea?
«Diffido del termine populismo perché ha diversi significati. Molti, a destra e a sinistra, mi hanno detto che ero populista. Quando i partiti sono stanchi ci si meraviglia che si possa parlare al popolo. Se essere populisti è questo, non è una cattiva cosa. Io non credo nella demagogia, che consiste nel lusingare un popolo per dirgli quel che si aspetta, parlargli delle sue paure. Non ho l’arroganza di pensare che la mia elezione rappresenti una battuta d’arresto di quel processo. (…) La mia elezione, come la maggioranza ottenuta all’Assemblea, sono un debutto carico di responsabilità. L’inizio di una rinascita francese e spero europea. (…) Quel che sfianca le democrazie, sono i responsabili politici che pensano che i loro concittadini siano stupidi. Ma ho la volontà di ritrovare il filo della storia e l’energia del popolo europeo, per fermare estremismi e demagogia. È una battaglia di civiltà».
Come gestire il rischio rappresentato da Trump?
«Donald Trump è intanto colui che è stato eletto dal popolo americano. La difficoltà è che allo stato attuale non ha ancora elaborato il quadro concettuale della sua politica internazionale. La sua politica può essere dunque imprevedibile ed è una fonte di disagio. Quanto alla lotta contro il terrorismo, Trump ha la stessa mia voglia di efficacia. Non condivido alcune sue scelte, prima di tutto sul clima. Ma spero che si possa fare in modo che gli Stati Uniti ritornino nell’Accordo di Parigi. È la mano che tendo a Donald Trump. Spero che cambi idea. Perché tutto è legato. Non si può voler lottare efficacemente contro il terrorismo e non impegnarsi per il clima».
Quanto alla Siria, se la linea rossa dell’uso delle armi chimiche viene oltrepassata, la Francia è pronta a colpire da sola? E può farlo?
«Sì. Se fissi una linea rossa e non la fai rispettare, decidi di essere debole. Non è la mia scelta (…)».
La cooperazione con gli altri Paesi della coalizione è indispensabile.
«Sì, ma chi ha bloccato le cose nel 2013? Gli Stati Uniti hanno fissato un limite invalicabile ma quando sono state usate le armi chimiche alla fine hanno scelto di non intervenire. E che cosa ha indebolito la Francia? L’avere definito una linea rossa senza trarne le conseguenze. E a qual punto che cosa ha dato il via libera a Vladimir Putin su altri teatri di operazione? L’avere davanti interlocutori che fissavano dei paletti ma non li facevano rispettare. Io rispetto Putin. Abbiamo dei veri disaccordi, sull’Ucraina in particolare, ma ha visto la mia posizione. Gli ho parlato dei temi internazionali e della difesa delle ONG e delle libertà nel suo Paese. Quel che ho detto in conferenza stampa a Versailles, non lo ha scoperto lì. Questa è la mia linea: dire le cose con molta fermezza a tutti i miei partner ma dirgliele, prima, in tête à tête. (…). La vera mia novità sulla Siria è non avere più fatto della destituzione di Bachar Al Assad una condizione preliminare a tutto. Con me finirà una forma di neo-conservatorismo importata in Francia da 10 anni. La democrazia non si fa dall’esterno senza coinvolgere i popoli. La Francia non ha partecipato alla guerra in Iraq e ha avuto ragione. E ha avuto torto a fare la guerra in Libia. Quali sono stati i risultati? Stati falliti nei quali prosperano i gruppi terroristici. Non voglio che questo accada in Siria».
Lo sport affianca la diplomazia. Lei si spende perché Parigi ottenga i Giochi del 2024. Un impegno che va al di là della città?
«È una candidatura europea, non solo di Parigi né della Francia».