Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  giugno 12 Lunedì calendario

La rivoluzione di Emmanuel nella nuova République cambia la geografia politica

PARIGI Con questa nuova forte affermazione elettorale di Emmanuel Macron si dovrebbe passare dalla Quinta alla Sesta République. Ma il neo presidente è garbato nella vittoria. Non vuole cambiamenti spettacolari. Né infliggere traumi a un paese afflitto da un profondo pessimismo, e adesso, all’improvviso, in preda a un sussulto di ottimismo. Alla giovinezza, alla freschezza del presidente è senz’altro dovuto questo effetto salutare. Lo stato di grazia del capo dello Stato appena eletto di solito dura poco. L’età e il recente ingresso nella vita pubblica risparmiano per ora a Macron il peso di un passato politico, con i rancori e le delusioni che comporta. Nel palazzo dell’Eliseo non ha ancora tolto i ritratti del predecessore, François Hollande. C’ è tempo per le formalità. L’atteggiamento spontaneo nei recenti appuntamenti diplomatici, con Trump, con Putin, con gli europei, l’ha favorito nell’opinione pubblica, non soltanto francese.
«La Francia è ritornata», è il solo slogan trionfalistico usato dai vincenti nel commentare i risultati. In effetti il mutamento c’ è stato. Ed è stato travolgente. Il ritratto della Francia politica non è più lo stesso. Il 32 per cento ottenuto ieri dal movimento di Macron, creato tre mesi fa e riluttante a diventare un vero partito, dovrebbe tresformarsi domenica prossima, al secondo turno, in un gruppo di deputati oscillante tra i 415e i 450. Questo significa l’80 per cento dell’Assemblea nazionale, che conta 577 seggi.
Gli altri partiti saranno relegati alle due estremità dell’ emiciclo. A destra di La République en marche (Lrem) di Macron, a una distanza di dieci punti, ci saranno Les républicains (LR), il centro destra con un gruppo di 85-115 deputati. A sinistra i socialisti con l’8 per cento, 20-35 deputati. Il segretario generale Jean-Christophe Cambadélis è stato eliminato nella circoscrizione parigina che rappresentava da più legislature. La formazione più radicale di Jean-Luc Mélenchon con 11-21 deputati non migliora la situazione della sinistra. All’estrema destra un Front National ridimensionato al 14 per cento, avrà da 3 a 10 deputati. Neppure un gruppo parlamentare. È una severa sconfitta, di cui Marine Le Pen pagherà il prezzo nel partito dove non mancano gli avversari. Nella circoscrizione del Nord è arrivata in testa ma non è stata eletta al primo turno.
L’incerto numero di deputati non è dovuto soltanto ai collegi dove nessuno ha ancora ottenuto la maggioranza. Molto dipende dalle triangolari, i collegi dove tre candidati hanno superato il 12,5 per cento degli aventi diritto e si pone il problema di chi deve ritirarsi. Con l’astensione registrata ieri di più della metà dell’elettorato lo sbarramento sale al 25 per cento. Determinante è in molti casi l’atteggiamento nei confronti del Front National da parte dei partiti democratici. Ma questa volta nelle triangolari, dove prevaleva la disciplina repubblicana nei confronti dell’estrema destra, a sinistra e a destra si cercherà di limitare il successo del movimento di Macron che appare preoccupante.
Le istituzioni non cambiano, ma il panorama politico è sconvolto. La vecchia classe dirigente (di estrema destra, di centro destra e di sinistra) è stata emarginata dal voto di ieri. Difficile reperirla nella massa dei candidati eletti o no, più della metà provenienti dalla società civile. Nelle cronache non risuonano più i nomi di Fillon, Sarkozy, Juppé, Hollande, Valls. Molti si sono ritirati altri sono confusi nella massa.
Un cambio tanto repentino è raro in una società democratica con radici profonde. Dove i riti sono spesso dissacrati ma preservati. Sono custoditi per poterli dissacrare. La fuga dai partiti tradizionali, alcuni carichi di storia, e l’adesione elettorale a un movimento nato pochi mesi fa equivalgono a un rifiuto. A una rivolta. Sia pure democratica, nelle urne. La Francia ha girato le spalle alla classe politica tradizionale e si è rivolta a un movimento appena nato presentatosi al voto con candidati in maggioranza sconosciuti, comunque estranei alla vita politica.
Gli elettori del partito socialista sono in larga parte emigrati nella République en marche di Macron. Il grande partito della sinistra democratica, che ha occupato il palazzo presidenziale dell’ Eliseo per quattordici anni con François Mitterrand, e per altri cinque appena conclusi con François Hollande, è ridotto a un quoziente che ai ballottaggi di domenica prossima dovrebbe ridursi a un numero di deputati appena sufficiente per formare un gruppo parlamentare. Nel momento di maggior crisi, nel 1993, il Ps ne ottenne cinquantasei. Il doppio di quelli attesi a fine settimana.
Con un terzo dei voti, che tra sette giorni dovrebbe dargli la maggioranza assoluta nella Camera bassa, quella che conta, il presidente sconosciuto fino a tre anni fa avrà un potere da vero monarca repubblicano. E questo accadrà grazie alla Costituzione voluta dal fondatore della Quinta Repubblica nel 1958. La storia non si ripete, ma capita che si assomigli. L’ anziano generale carico di gloria, Charles de Gaulle, e il neo presidente neppure quarantenne, senza un passato politico alle spalle, Emmanuel Macron, non hanno nulla in comune. È persino irriverente, anzi insensato, accostare i due personaggi. Uno è già nella Storia, l’ altro è appena entrato nei telegiornali. Né del resto c’è una guerra d’ Algeria in corso, né c’ è in vista un putsch militare come sessant’anni fa, quando dalle rovine parlamentari della Quarta Repubblica spuntò la Quinta Repubblica. Ma è lecito azzardare qualche analogia. Anzitutto il discredito dei partiti e della classe politica, che ha aiutato de Gaulle nel 1958 e aiuta Macron nei nostri giorni. In questo senso c’è stato un nuovo salto di République.
La Francia è un paese di forti istituzioni che cambiano spesso. È un corpo solido che non trabocca dal secchio ma che ogni tanto lo spacca. L’ Italia è un liquido che trabocca spesso senza spaccare il secchio. Da noi il panorama politico stenta a ricomporsi, dopo le crisi degli scorsi decenni. L’irruzione del giovane Macron mette adesso a dura prova i partiti politici francesi. Il suo liberalismo progressista assomiglia alla linea dei radicali tra le due guerre, nella Terza Repubblica. Ma nella nostra epoca è la supremazia dell’economia sulla politica. E quindi il superamento dei criteri di destra e sinistra sempre più fluidi. Nel suo governo, oltre ai rappresentanti della società civile, ci sono esponenti di destra e di sinistra a titolo individuale.
Macron ha messo i concorrenti di fronte alla realtà: nessuno ritrovava più i propri elettori. Quelli della sinistra erano slittati in larga parte nel Front National, abile nel denunciare quel che non va, o quel che turba la gente, ma incapace di proporre dei rimedi. Marine Le Pen sembrava avviata al successo quando ha usato i temi forti del populismo, ma ha dimostrato la sua mediocrità quando si è rivelata incapace di illustrare una linea di governo credibile. I timori di un’estrema destra antieuropea, protezionista e sciovinista vincente sono svaniti con il voto di ieri. Anche il centrodestra (Les Républicains) subisce la vittoria di Macron. Perderà la metà dei seggi, ma si è mantenuto al 20 per cento. Lo minaccia una spaccatura, tra coloro che vogliono sostenere Macron e quelli che vogliono animare una forte opposizione.