Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1976  ottobre 10 Domenica calendario

Ma nella rossa Reggio Emilia...

Come è andata la sera della stangata a Reggio Emilia? Quando alle 8.30 i comunisti di Reggio si sono mossi dalle case per andare al Palasport ad ascoltare Eugenio Peggio, sapevano già tutto. La televisione aveva snocciolato il rosario degli aumenti e c’era pure la benzina, un punto fermo fra i «no» del Pci. La folla è nervosa e arrabbiata davanti al Palasport: folla, non poca gente come nelle assemblee di Sesto Fiorentino o di Rifredi a Firenze. Reggio è la più potente federazione provinciale del Pci per numero di iscritti rispetto alla popolazione: 65 mila su 350 mila abitanti. Al Palasport ci sono almeno tremila persone, che vogliono ascoltare e partecipare.
Quando alle 9 arriva Peggio, con il segretario reggiano Antonio Bernardi (barbuto, esponente della leva giovane, 33 anni, un «figlio del partito»), c’è una grandinata di domande: i militanti si stringono intorno ai due dirigenti, dicono che bisogna discutere. Bernardi e Peggio cambiano rapidamente il programma: quella che doveva essere una «manifestazione» come dicevano i manifesti, cioè un comizio, diventa un’altra cosa: un comizio-dibattito, tra l’introduzione di Peggio, una raffica di interrogativi e di contestazioni e la replica finale. Ed era inevitabile, non solo per l’impatto immediato, a caldo, della stangata. Bernardi parla chiaro: «Compagni, nei comizi davanti alle fabbriche abbiamo avvertito un fermento su come andrà a finire questa vicenda, su quello che fa il nostro partito, che è uscito dall’opposizione ma non è ancora al governo. È bene che ne parliamo».
Ma, prima di dare la parola a Peggio, dice che la Bloch va difesa, deve riaprire e produrre. Sono ottocento operai tessili che rischiano di perdere il lavoro alla Bloch, nella piazza della Vittoria è montata una casa della solidarietà a sostegno della lotta. Donat-Cattin non ha voluto ricevere il sindaco di Reggio, per i comunisti emiliani la salvezza della fabbrica è diventata un esempio concreto di come va il nuovo corso. «La Bloch la chiudono», mi dicono sulle gradinate del Palasport. Ma Bernardi non dice il contrario? «Sì, ma quando quelli della Bloch con il sindaco e gli altri sono andati a Roma alle Botteghe Oscure, Amendola gli ha detto che c’è il Sud senza lavoro, ha detto che i tempi sono duri e le decisioni amare».
Eugenio Peggio è deputato e direttore del Cespe, il centro economico del partito, ed esprime la linea di Amendola, che è ormai interamente la linea del Pci: inflazione come pericolo numero uno e lotta contro l’inflazione come asse della strategia economica e politica. «Situazione molto grave», dichiara Peggio. «Già un anno fa avevamo detto che bisognava mettere il paese in stato d’allarme». Nei confronti del governo misura i sostantivi e gli aggettivi: «Siamo molto critici per il modo come ha aumentato le tariffe ferroviarie, senza consultare prima il Parlamento»; «il nostro è un atteggiamento negativo e di condanna per l’aumento della benzina, senza aver fatto il doppio mercato (1)»; «però abbiamo apprezzato come Andreotti ha parlato alla Tv, soprattutto per la lotta contro gli evasori»; «certo, ci vuole un governo di unità nazionale, bisogna arrivarci, è urgente, ma non si possono bruciare i tempi, si potrebbe anche rischiare di tornare indietro». E poi la tesi principale: «Compagni, l’alternativa non è se accettare o rifiutare i sacrifici, ma di riuscire a orientarli al superamento della crisi. Qui si esprime la funzione dirigente della classe operaia».
Si chiama Fornaciari l’operaio che apre il fuoco. Parla da un microfono volante: «Compagno Peggio, ho avuto un’impressione non positiva: che noi questo governo non lo possiamo buttare giù» (applausi). «C’è l’aumento della benzina. Abbiamo sempre detto che è un elemento di inflazione. Se il governo fa questo, noi non lo possiamo tener su» (applausi). «E poi, non avevamo detto che il governo doveva prima venire in Parlamento? Nemmeno questo abbiamo ottenuto, diciamo la verità» (applausi più forti). «Il Pci deve essere coerente con quel che ha detto nella campagna elettorale. Se altri vogliono sostenere questo governo, facciano pure, ma noi siamo contro queste misure antipopolari» (altri applausi).
La replica è immediata: parla un giovane. forse uno studente. «È vero, siamo attaccati. Ci dicono: ecco quel che sapete darci... Ma bisogna reagire al qualunquismo. Non mi sono piaciuti gli applausi a Fornaciari» (dalle gradinate partono alcuni fischi, altri applaudono. ma appena appena).
Il microfono viaggia. Le domande sono rapide. «C’è il sospetto che i soldi della riconversione andranno ai grandi gruppi, che poi faranno quello che vogliono». «È difficile metter su una lotta perché rischiamo di fare cadere il governo, e dopo potrebbe essere peggio: ma che facciamo allora?». E poi arriva la Bloch: «Amendola ci dice che dobbiamo avere una linea generale, coerente, che gli investimenti devono andare al Sud. Ma se poi difendiamo le fabbriche una per una, allora siamo incoerenti? La Bloch, la difendiamo o no? Se la difendiamo, siamo incoerenti. E che dobbiamo dirgli? Intanto chiudiamo e aspettate che si faccia qualche posto al Sud?». Arriva infine la questione delle tariffe e dei servizi sociali: «In Emilia eravamo il modello. Adesso si scopre che abbiamo sbagliato tutto».
A questo punto, Bernardi, il segretario federale, afferra il microfono: «Ma che succede, compagni? Così non va. Dobbiamo parlare seriamente. Ma dove sta scritto che abbiamo sbagliato? Noi abbiamo fatto bene. E chi dice che la Bloch chiude? La Bloch deve vivere. Insomma, parliamo da compagni, non veniamo a ripetere qui quel che scrive il manifesto».
Eugenio Peggio, quando replica, cambia tono, parte d’attacco. «Le domande sottolineano uno stato d’animo che chiarisce le difficoltà in cui ci troviamo anche come partito. Noi non ci sentiamo responsabili di quel che fa questo governo. Ma non possiamo ignorare le responsabilità che la crisi accolla anche a noi».
Arrivano le frasi dure. «Parliamoci con franchezza. In questi anni di crisi, la classe operaia non è andata indietro. La nostra scala mobile non ce l’ha nessuno. Non possiamo chiedere miglioramenti in fabbrica senza pensare che ci sono i disoccupati. Insomma, compagni, il movimento operaio italiano non può fare il piagnone. Né si è credibili solo perché si dice che il governo va buttato giù. Ne avremmo uno migliore? Invece, dobbiamo lottare per costringerlo a mantenere gli impegni. Dobbiamo difendere le fabbriche? Bisogna valutare caso per caso perché poi a Milano manca la manodopera qualificata. E la benzina? I prezzi delle macchine Fiat sono aumentati più della benzina; e allora protestiamo un po’ di più contro la Fiat! Bisogna andare ad un governo di unità nazionale, ma non possiamo bruciare i tempi: dobbiamo invece spostare ancora i rapporti di forza».

Note: (1) Per la benzina i comunisti avevano proposto il ricorso a un doppio mercato: in pratica lo Stato avrebbe dovuto rimborsare, attraverso i canali fiscali, una parte della somma spesa dei lavoratori per i primi 600 litri di benzina. Non solo i comunisti pensarono al doppio mercato della benzina: altri proposero di ricorrere al tesseramento, mediante il quale due terzi del quantitativo annuo di benzina consumata si sarebbero dovuti vendere a prezzo ridotto e il rimanente terzo al mercato libero a un prezzo oscillante tra le 500 e le 600 lire.


Intervista di Mario Pironi al segretario generale dei metalmeccanici Bruno Trentin 

la Repubblica, 6 ottobre 1976

Ma insomma fino a quando non ci saranno i piani di settore il sindacato si comporterà come alla Innocenti (1)?
«Io posso chiedere agli operai di una fabbrica decotta di andarsene se offro loro un altro posto, ma se è un giovane che non ha fatto il militare, un uomo che ha superato i quarant’anni o, ancor peggio, una donna il posto chi glielo dà?».
Eppure non si legge ormai dappertutto che ci sono al Nord migliaia di offerte di lavoro inevase?
«È verissimo, ma sono concentrate ai due estremi della scala, o per la catena di montaggio o per le lavorazioni più specializzate. Il fenomeno è anzi molto più vasto di quanto si dica. Non solo non si trovano operai per l’Alfa o per le Fonderie di Modena, ma vi è una carenza di 35.000 edili che comprende persino 1500 posti inevasi in Basilicata. In queste condizioni avremo presto una disoccupazione di massa accompagnata dalla immigrazione di lavoratori stranieri».
Ma non è questo il frutto paradossale di un’azione sindacale troppo avanzata (ad esempio stabilendo che ad un certo grado di scolarizzazione non si può lavorare alla catena) tipica dell’Italia?
«Il fatto è che l’Italia è l’unico grande paese industriale senza immigrati provenienti dal Terzo Mondo, disposti per un certo periodo ad accettare condizioni gravosissime di produzione. Il problema della trasformazione delle condizioni del lavoro industriale e quello della sua qualificazione salariale e sociale è decisivo se non vogliamo chiamare in Italia gli afgani. Solo attraverso una profonda modificazione dell’organizzazione del lavoro riusciremo a scontare l’accesso al lavoro manuale di una manodopera giovane, ormai largamente scolarizzata. Ma le forze politiche della sinistra hanno consapevolezza di un problema così decisivo?».
Dato quanto ha detto, sembra che il sindacato giudichi assai diffìcile far accettare ai lavoratori la politica di austerità imposta dal governo, pur con l’assenso delle sinistre?
«Se mancheranno delle scelte molto precise con obbiettivi che la gente possa cogliere come raggiungibili, rischia di aprirsi nel paese un divario profondo tra le direzioni del movimento politico-sindacale e base, con la creazione di zone di vero e proprio qualunquismo dove si moltiplicherà la logica dell’autodifesa corporativa. I lavoratori non sono viceversa indifferenti ad una politica che, pur tenendo ben fermi i rigidi limiti della bilancia dei pagamenti e del deficit pubblico, proponga un gioco che valga la candela: un posto di lavoro al Sud, una misura di austerità che si qualifichi per il suo contenuto, e così via».

Note: (1) L’Innocenti-Leyland fallì nel ’75 e venne liquidata alla fine di quell’anno. Nel maggio del ’76 – dopo cinque mesi di lotte operaie – riprese la produzione con l’aiuto economico della Gepi e il programma di riconversione studiato da Alessandro De Tomaso e approvato dal governo. Il sindacato si distinse per non aver accettato il minimo taglio dei posti di lavoro. I quattromila dipendenti infatti rientrarono tutti – sia pure gradualmente – in fabbrica.