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 2017  maggio 23 Martedì calendario

«Libia, uno choc i centri profughi. Ora lavoriamo con tutte le fazioni»

«Non è possibile che bambini, donne e uomini, che hanno già sofferto moltissimo, vivano in quelle condizioni. È vero, sono rimasto scioccato. Nei centri di detenzione libici manca lo spazio, l’igiene, scarseggia il cibo. Hanno urgente bisogno di essere migliorati».
Filippo Grandi parla al telefono da Tunisi. L’Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati è appena rientrato da una giornata sul «fronte libico». Ha visitato alcuni dei principali campi, ce ne sono una quarantina in tutto, dove le autorità nordafricane portano rifugiati e migranti, intercettati nelle loro acque territoriali o arrestati nelle città. Eppure i centri sono solo una minima parte del problema. Ci sono più di 1,3 milioni di persone oggi in Libia che necessitano con urgenza assistenza umanitaria. Migranti, rifugiati, ma anche sfollati interni travolti dal collasso dell’ordine pubblico, del sistema sanitario, privi di cibo, acqua e servizi essenziali. «Oggi – spiega Grandi nell’intervista al Corriere – ho capito molto meglio che nei limiti del possibile, stante una situazione politica e militare complicata e altamente instabile, dobbiamo aiutare le autorità libiche, e intendo tutte non solo il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, a gestire meglio questi flussi. C’è spazio per farlo».
Per far fronte alla crisi in corso, il segretario generale dell’Onu ha annunciato un rientro in forze in Libia. Tutte le agenzie delle Nazioni Unite stanno rispondendo alla chiamata aumentando la loro presenza, in primis l’Alto Commissariato. Come vi state muovendo? Quali difficoltà incontrate?
«Non è facile. Abbiamo inviato una missione di colleghi libici una settimana fa nel Sud, ma dopo pochi giorni c’è stato un violento scontro fra milizie. Questa è la realtà in Libia: fino a quando non ci sarà un accordo politico, saremo costretti a lavorare in queste condizioni. Lavoreremo lo stesso, ma con tutti gli ostacoli del caso. La nostra operazione si svolge ovunque abbiamo un margine: a Tripoli e nei dintorni, nell’Est, in Cirenaica e a Bengasi. Ma il punto per noi critico è nell’Ovest, in Tripolitania e nel Fezzan, dove cioè approda il flusso che prende corpo dall’Algeria, dal Niger e che si muove verso nord. Lì possiamo identificare le persone più vulnerabili e bisognose, quelle che meritano protezione internazionale, facilitando l’azione delle autorità».
Il modello dell’accordo fra le tribù della frontiera Sud, come quello siglato a Roma con la mediazione dell’Italia, è una strada?
«Sono intese importanti perché stabilizzano, dandoci più sicurezza e spazio per lavorare. Ma è importante che vengano stipulati tra i locali. La comunità internazionale dovrebbe applicare questo schema a tutte le parti in conflitto, ma non è così: purtroppo ci sono diversi Stati che appoggiano determinate fazioni, invece di mediare e favorire accordi».
Il flusso dei migranti che arrivano via mare in Italia continua. Ci sono state polemiche e scandali. Che fare su quel fronte?
«Se stabilizziamo la situazione politica e istituzionale, ci saranno meno attraversamenti. Senza accordi politici, gli sbarchi continueranno. In ogni caso, salvare vite umane deve rimanere una priorità, è fuori discussione. E penso che chi si impegna a farlo debba essere autorizzato a poterlo fare. Certo in modo coordinato, dalla Guardia Costiera e da altri. Certo in maniera da assicurare l’integrità degli interventi e in questo senso condivido in pieno le raccomandazioni della commissione parlamentare. Però occorre riconoscere che le Ong hanno fatto un lavoro fantastico, salvando migliaia di persone. È sbagliatissimo condannarle, cercare di limitarne l’azione e men che meno escluderle. Però non c’è solo la Libia e non c’è solo il mare».
Cosa vuol dire?
«Che i flussi attraversano una quantità di altri Paesi e occorre una strategia d’insieme. In Niger per esempio si può fare di più, dando loro più risorse. Per non parlare delle cause d’origine, che richiedono investimenti politici e finanziari ben più massicci. L’Europa non è coesa e non agisce in modo strategico. Spero che anche il G7 di Taormina si occuperà di questo nello spirito giusto. Mi preoccupa che come sempre l’accento più forte venga messo su controllo e contenimento. Criteri sacrosanti, ma da soli non in grado di risolvere il problema: occorre anche aggredire le radici delle migrazioni e rafforzare la catena di gestione dei flussi».
Ma l’Unione Europea non è neppure in grado di portare a termine il ricollocamento dei rifugiati, decisi quasi due anni fa.
«È uno scandalo. Siamo d’accordo con la posizione assunta dal Parlamento europeo e dal commissario Avramopoulos, le istituzioni europee non devono demordere di fronte all’inettitudine dei governi a tradurre in atto un piano minimo, che riguarda appena 10 mila dei 160 mila ricollocamenti decisi nell’agosto 2015. È una mancanza di sensibilità e d’iniziativa politica che lascia senza parole. Applicare quel piano per tempo avrebbe ridimensionato il problema, spezzandolo, facilitandone la gestione e soprattutto cambiando la percezione dell’opinione pubblica, che avrebbe avuto il segnale di un movimento organizzato e non di un’anarchia incontrollata. Noi insistiamo ancora perché sia applicato. Abbiamo visto quest’anno alcune elezioni andare in senso opposto al populismo e questo forse convincerà i governi europei a fare scelte più coraggiose e lungimiranti».