Corriere della Sera, 17 agosto 1953
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L’Occidente e la Persia
Forse mai come in questi tempi terribili, il Campidoglio e la Rupe Tarpea furono cosi vicini. Ieri lo Scià fuggiva e Mossadeq trionfava. Oggi lo Scià torna in trionfo e Mossadeq è arrestato, e la sua vita dipende dalla generosità dello Scià. Ieri la folla per le vie di Teheran urlava: « Morte allo Scià!», e bruciava i suoi ritratti. Oggi grida: «Morte a Mossadeq! Evviva lo Scià!». Il ministro degli Esteri di Mossadeq, Hussein Fatemi, tre giorni fa scriveva sul giornale semi-ufficiale «Bakhtar Hemrouz»: «o tu, vile traditore, il cui padre vendette la provincia del Khuzistan agli Inglesi, e che fosti il centro di tutti gli intrighi antinazionali, insieme con le tue sorelle, con tuo fratello e con tua madre, la Nazione desidera farti giudicare da un tribunale speciale e vederti, per i tuoi tradimenti, pendere da una forca». Gentile desiderio! E ora anche Hussein Fatemi è sparito dalla scena.
A quanto pare è stato l’esercito che ha deciso le sorti del conflitto. Quella vecchia volpe di Mossadeq sapeva bene quel che faceva, quando lottava per strappare l’esercito dalle mani del sovrano. Egli sentiva che, fin quando non si fosse impadronito dell’esercito, non sarebbe stato sicuro. Ogni volta che si era trovato di fronte a una forte resistenza, aveva fatto appello alla folla di Teheran, e la aveva sempre spuntata. Ma la folla è una base troppo debole e labile, perché su di essa si possa permanentemente fondare una dittatura. È debole perché pochi uomini che sparino sul serio bastano a mettere in fuga una moltitudine. Ed è labile perché una emozione, un niente possono far cambiare direzione ai suoi odi ed ai suoi furori. E Mossadeq aveva fatto di ciò l’esperienza personale, quando, nel febbraio di quest’anno, era stato costretto a fuggire di casa in pigiama, perché la folla voleva linciarlo.
Egli, dunque, voleva avere in mano l’esercito. E per questo aveva impegnato la lotta con lo Scià. Questa lotta è durata esattamente un anno. Cominciò precisamente il 16 luglio dell’anno scorso, quando Mossadeq, dovendo fare il nuovo Governo in seguito alle recenti elezioni, domandò allo Scià di affidargli, oltre che la Presidenza, il Ministero della Guerra. Lo Scià respinse la richiesta, e chiamò al potere Qavam Es-Sultaneh. Seguirono tumulti, crisi e un po’ di sangue per le vie di Teheran. Così cominciò il conflitto. E si è protratto, attraverso tempestose vicende, fino a ieri. Ora Mossadeq è in prigione. La Persia si è liberata di un ambizioso, che non aveva esitato a mandarla in rovina, pur di soddisfare la sua sete di dominio e di potere. Ma questo non significa che la Persia sia salva. Tutt’ altro. Quei pericoli coi quali Mossadeq giocava come i forsennati giocano con l’incendio minacciano la Persia oggi come ieri.
il mese scorso arrivò a Teheran Lavrentiev, che è uno dei più abili diplomatici sovietici, con la missione di sistemare varie questioni pendenti fra la Russia e la Persia. Fra queste, il trattato del 1921, che consente alla Russia di mandare truppe in Persia nel caso che la Persia diventi base di attacco contro la Russia. D’altra parte, la Persia reclama dalla Russia alcune tonnellate d’oro, in pagamento dei servizi resi alle truppe russe durante la seconda guerra mondiale. Probabilmente Mossadeq avrebbe finito col confermare il diritto sovietico di mandare truppe pur di ottenere l’oro, di cui aveva estremo bisogno. Che cosa farà il nuovo Governo è impossibile prevederlo. Ma che cosa debbano fare le Potenze occidentali è evidente. Devono concedere allo Scià quello che non vollero concedere a Mossadeq. Devono non chiedere allo Scià quello che non avrebbero potuto ottenere da Mossadeq.
Alcune settimane fa il Presidente Eisenhower, a una richiesta urgente di aiuti, fattagli da Mossadeq, rispose secco che l’America non gli avrebbe concesso più un dollaro, finché non si fosse accordato con gli Inglesi sulla questione dei petroli. Ma, ora, la scena è rovesciata. E bisogna che l’America si affretti a concedere allo Scià gli aiuti che rifiutò a Mossadeq. Bisogna che metta il nuovo regime in condizione di pagare agli impiegati civili e militari gli stipendi che Mossadeq non pagava. Bisogna che gli dia un po’ di viveri, di medicinali, di dollari. Insomma, bisogna che gli renda possibile di cominciare a funzionare. Questo il bisogno immédiato. Poi vi è il bisogno a lunga scadenza. Gli Inglesi devono accordarsi col nuovo Governo sul petrolio. La nazionalizzazione è fatta. Il petrolio è perduto. Il problema per gli Inglesi è circoscritto a questo: danni e commercio del petrolio. Per i danni, essi non riuscirono a intendersi con Mossadeq perché, mentre Mossadeq era disposto a indennizzarli per il valore degli impianti, essi pretendevano anche l’indennizzo dei profitti che sono venuti a mancare per effetto della nazionalizzazione. In altri termini: il contratto sarebbe dovuto durare fino al 1993; voi lo risolvete: quindi pagatemi i profitti che io avrei realizzati, se voi aveste rispettato il contratto fino al 1993. È una tesi molto discutibile sul terreno giuridico. Ma in ogni modo, queste non sono questioni che si risolvono in base al diritto. Quale che sia il fondamento giuridico della pretesa inglese, il Governo persiano non potrà accettarla. Perché un Governo il quale viene dopo Mossadeq può essere nazionalista in modo più ragionevole, ma non può non essere nazionalista. E, cioè, non può mostrarsi arrendevole là dove egli fu rigidissimo. Se no, sarà accusato di essere al servizio dello straniero, di tradire la Patria, ecc. E comincerà a declinare.
In conclusione. Americani e Inglesi dovranno ricordare sempre che la Persia, fino a pochi giorni fa, era perduta per l’Occidente, e che solo il caso l’ha fermata sulla ripida discesa. Perciò, ora, devono trattare la questione persiana con larghezza di idee e con generosità di mezzi. Guai se si lasciassero trascinare dall’avidità di salvare alcuni milioni di sterline in più. Guai se tentassero di ottenere dallo Scià quello che non poterono ottenere da Mossadeq. Rovinerebbero lo Scià, e perderebbero l’ultima possibilità di salvare la Persia. E il problema, oggi, è di salvare non già il denaro o gli interessi dell’Anglo-Iranian, ma la Persia.