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 1948  ottobre 18 Lunedì calendario

Quel che possono i curdi in Persia se li armano i russi

Lo scorso marzo l’ambasciatore degli Stati Uniti presso il Governo iranico, Allan,  rientrando in Patria, si recò fra l’altro in visita di congedo  dall’ambasciatore sovietico,  Sadcikov. Sadcikov lo ricevette  amabilmente nel suo giardino e i due passeggiarono avanti e  indietro lungo un vialetto  ripulito e lustro, fiancheggiato da aiuole ben pettinate, definito da levigati kascì.  Chiacchierarono del più e del meno come ben si conviene a due  ambasciatori in visita di cortesia e infine Allan, tanto per dire qualche cosa, lo complimentò per quel vialetto. – L’ho fatto io – rispose  fiero Sadcikov. E aggiunse: – È l’unica cosà che abbia  veramente portata a termine da quando sono a Teheran. La frase era di quelle che fanno colpo, e, in fondo,  piuttosto esatta anche se  temperata da un tantino di ipocrisia. Poiché di tutte le imprese  tentate negli ultimi tempi dalla Russia in Persia, non una si può dire che sia stata portata trionfalmente a compimento. Ma con ciò né la Russia, né  altri pensano che in quel  vialetto siano conclusi con  rassegnazione tutti i sogni di successo del Governo sovietico. Al  contrario. La Russia guarda alla sperequazione enorme, che è in Iran, tra le immense ricchezze e la spaventosa povertà, alimenta i fermenti fra le tribù del nord, e tace. Un bel tacere favorito dalle circostanze. Un russo sovietico in Persia è  molto meno identificabile di un  inglese o di un americano. Chi può veramente rintracciarlo tra i tanti armeni che parlano  russo, e facilmente si confondono come appartenenti all’uno o  all’altro Azerbaijan, o tra i  molti russi fuggiti dalle Provincie del Caspio o le migliaia di  superstiti all’esodo della  rivoluzione bolscevica? Cosi i Russi possono essere dovunque e in nessun luogo. I conti  rimangono in sospeso. C’è poi il problema curdo: una delle maggiori pedine,  forse, del presente gioco russo in Persia. Questo problema non si limita soltanto  alla regione persiana, ma abbraccia anche  parte dell’Iraq, della Turchia e della Siria, più, naturalmente, il Curdistan russo; ha centri a Bagdad, Damasco, Beirut, Il Cairo, e una popolazione  ribelle e battagliera che, secondo i vaghissimi censimenti, fluttua dai tre agli otto milioni di  anime. Nel solo Curdistan  persiano le statistiche (più che mai un’opinione) danno cifre che vanno dai settecentomila al  milione e mezzo.
I curdi sono bella gente: discendenti dagli antichi Medi, con una tradizione oltre  quattro volte millenaria, più fieri del loro arianesimo di una S.S. Caracollano su cavalli senza  sella come giovani diavoli, hanno una mira infallibile, ignorano la ambigua sorridente grazia persiana della promessa  elastica, del giuramento con  riserva: ammazzano piuttosto o si lasciano ammazzare. La parola d’onore sul Corano è  questione di vita o di morte.  Vivono tra le montagne. Da  Erzerum ad Aleppo, a Mosul,  Suleimania, Kirkuk, Urmia,  Kermasciac: un’area che  abbraccia uno dei bacini petroliferi più ricchi del mondo. E ciò spiega anche come di tanto in tanto la questione curda  venga posta sul tappeto  internazionale, e nel 1920 a Sèvres  venne firmato un trattato – bene auspicante il Governo  britannico – che decideva  dell’autonomia della repubblica del  Curdistan. II trattato durò tre anni, in vigore esclusivamente sulla  carta: venne annullato dal  trattato di Losanna, ma il sogno della indipendente repubblica, benedetto dalla memoria del Saladino, – uno dei  condottieri curdi più famosi nella  storia – non declinò per così  poco. Quello che mancava  soprattutto era una forza di coesione fra i vari curdi sparpagliati per le montagne, suddivisi in varie tribù, ostacolati dalle difficoltà di comunicazione  nell’orrido meraviglioso di picchi, precipizi e gole di rocce. E a questo provvedettero i Russi non appena messo piede in Persia in nome della ben  nota liberazione. Dalle armi  saccheggiate ai depositi militari dell’esercito persiano in rotta, i curdi passarono ad un  rifornimento vero e proprio di  fucili, carri armati, e  mitragliatrici russi; beneficiarono di  tipografie, stazioni  radio-trasmittenti e riceventi che  abolivano le distanze e unificavano le direttive; e a Mohabad, a  sudest del lago Urmieh, fu fatta sorgere la famosa  repubblichetta autonoma retta da Qazi  Mohamed. A Qazi Mohamed, della tribù dei Dehbokri, si aggiunse poi Mullah Mustafà della tribù  curda irakena dei Barzanì fuggito dall’Irak insieme ai propri  uomini. Che Qazi Mohamed e Mullah Mustafà andassero  d’accordo non si può dire: era per Qazi Mohamed una ospitalità troppo costosa. Ma bisognava fare di necessità virtù. In ogni modo, quando a un certo  momento i Russi mollarono a  Tabriz Pisciavari, la  repubblichetta di Mohabad fu travolta nelle conseguenze del crollo, e Qazi Mohamed, insieme ai suoi riuscì a farla franca e, eludendo la caccia  dell’esercito persiano, nel giugno dello stesso anno entrava in  territorio curdo russo. E adesso  d’oltre frontiera sventola ai curdi il vessillo della indipendenza.
Tutto ciò balena solo a  strappi in questo Paese  dell’impreciso e della vastità. I curdi passano a cavallo dinanzi alle  guarnigioni militari persiane, il  volto di una feroce bellezza calmo e impenetrabile: gli Harki, le tribù delle montagne, coi turbanti neri filettati di bianco e le frange ricadenti sugli occhi; gli Scikak con un enorme  copricapo di feltro bianco a  forma di vaso, cinto da un nastro nero. La tomba di Qazi Mohamed è sempre coperta di fiori; f non si sa chi li metta. Ogni tanto si parla di fucileria alla frontiera: gli Harki che  volevano rubare del bestiame, si  riferisce. Le trasmissioni in lingua curda della radio di  Baku giungono attese negli angoli più remoti di quelle montagne, ma nessuno viene mai sorpreso in ascolto. I curdi hanno avuto ordine di consegnare tutte le armi, ma si sa benissimo che ne hanno consegnate solo la ventesima parte e che ognuno di essi è pronto ad acquistare un fucile a qualsiasi prezzo.
Tutto questo non per  filosovietismo o particolare amore  alla Russia. Affatto. V’è tra loro molta gente che ricorda  ancora il sanguinoso passaggio  dell’esercito russo alla fine della prima guerra mondiale. Ma per quel fermento che è in loro, che fa parte delle loro aspirazioni e della loro natura, e che fa loro preferire una Russia che promette loro battaglia e,  eventualmente, indipendenza a una Persia che li esenta dal  servizio militare e dal pagamento delle tasse. E i trinceramenti lungo i fianchi delle montagne tra  Miaondab e Maraghè, trinceramenti disposti dai Russi c dietro i quali si sparava con  mitragliatrici russe, sono intatti, ben conservati come se qualcuno ci pensasse a tenerli in ordine. Il nome di Mullah Mustafà  Barzani ritorna in auge. Era  risaputo che, in un primo tempo, Mullah Mustafà non aveva  goduto presso i Russi di una  particolare fortuna. I suoi uomini, accampati sulle rive dell’Araxes alla frontiera russo-persiana,  erano notoriamente male in  arnese. Le armi che avevano portato con loro da Mohabad  erano state confiscate dai sovieti. D’improvviso nella primavera di questo anno, per una di quelle rapide segrete strade che  corrono le voci in Oriente, giunse notizia di una visita a Mosca di Mullah Mustafà Barzani.  Subito dopo, fu riportato d’oltre confine, i Barzani facevano sfoggio di bollenti spiriti; ben nutriti, equipaggiati e in  possesso nuovamente delle loro  armi. Nel maggio il sottocapo di Mullah Mustafà girava come una specie di inafferrabile  fantasma nel nord dell’Azerbaijan persiano, protetto dalle tribù Jalalì la cui fedeltà al governo di S. M. imperiale lo Sciahinscià non è certo esemplare. Tre altri agenti russi curdi apparvero in altre Provincie dell’Azerbaijan settentrionale invitando le  tribù ad unirsi al nuovo  «Movimento nazionalista del  Curdistan». La polizia persiana  scatenò i suoi migliori agenti e  soldati per le montagne, ma,  dopo settimane di appostamenti e inseguimenti senza tregua, non riuscì che a prenderne uno. Nello stesso tempo a Tabriz il console sovietico Grosnik  veniva richiamato, e a Maku, un paesello posto nel cuneo di  territorio persiano fra la frontiera russa e quella turca, dove mai c’era stata rappresentanza straniera, s’installava un incaricato d’affari russo.
Da allora ogni tanto scatta qualcosa come una scintilla: una scintilla nel buio. Guizza, sparisce, lampeggia più in là. Le trasmissioni radio da Baku si fanno sempre più violente. È un programmatico  smantellamento alla cosiddetta  impossibilità di riunire i curdi  attraverso la barriera delle varie montagne. E che cosa vi sia dietro le menti dei curdi, quali piani, nessuno lo può  indovinare. Il futuro è nelle mani di  Allah. Nulla potrebbe ancora  accadere nel Curdistan. Ma è  anche possibile che la sua sorte un giorno o l’altro finisca.per assomigliare alla storia del bene ordinato vialetto nel giardino di Sadcikov.